Le affinità con un altro femminicidio maturato nel medesimo ambito familiare, anni prima, lascia pensare male. Le nuove indagini potranno fare chiarezza sulla morte di Barbara Corvi mentre il marito rimane l’unico indagato, a piede libero, con l’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere.
Amelia – Nuovi testimoni ed accertamenti attraverso moderne tecniche di rilevamento come il Luminol hanno indotto il Gip del tribunale di Terni, Barbara Di Giovannantonio, a rilanciare l’indagine sulla morte di Barbara Corvi, 35 anni, la donna scomparsa da Montecampano di Amelia il 27 ottobre del 2009.
La decisione è postuma alla determinazione del Procuratore capo Alberto Liguori che, a sorpresa, ha ritirato la richiesta di archiviazione nei confronti di Roberto Lo Giudice, 49 anni, originario di Reggio Calabria, marito della presunta vittima, finito in manette con l’accusa di omicidio volontario e occultamento di cadavere, già scarcerato dal tribunale del Riesame nel marzo dell’anno scorso.
Alla decisione del consesso giudiziario che aveva rimesso in libertà l’indagato si era opposta la Procura ternana ma la Cassazione aveva dato ragione, ancora una volta, a Lo Giudice che usciva dal penitenziario. Alla libertà di Lo Giudice si era opposta la famiglia della vittima, con gli avvocati Giulio Vasaturo ed Enza Rando dell’ufficio legale di Libera, che avevano prodotto agli atti diversi spunti investigativi che il Procuratore Liguori faceva propri tanto da avanzare al Gip la richiesta di nuove indagini.
Cosi è stato. Il magistrato inquirente Di Giovannantonio, infatti, ha disposto altri 6 mesi di indagini durante i quali si dovranno eseguire nuove verifiche di laboratorio sull’auto in uso a Lo Giudice all’epoca dei fatti. Dovranno poi essere ascoltati sette testimoni che sarebbero a conoscenza di fatti determinanti che potrebbero dare nuova linfa al caso rimasto insoluto.
Esce invece dall’inchiesta Maurizio Lo Giudice, 38 anni, fratello dell’indagato, in un primo momento indicato come complice nei reati che gli inquirenti ipotizzano e per i quali l’uomo si è sempre dichiarato innocente. Dovrà essere passata al setaccio la situazione finanziaria della famiglia all’epoca della scomparsa di Barbara e le relazioni personali e sentimentali della coppia saranno in qualche modo le linee guida delle indagini che il Gip ternano ha disposto tramite la sua ordinanza.
Barbara non andava più d’accordo con il marito e pare stesse frequentando un altro uomo con il quale avrebbe intrecciato una relazione sentimentale. Dunque un delitto d’onore? Il marito avrebbe ucciso la moglie per lavare con il sangue l’onta del tradimento? Il fratello dell’indagato, Maurizio Lo Giudice, oggi prosciolto, era stato tirato in ballo da tre pentiti: Antonino Lo Giudice detto Nino (altro fratello dei due indagati), Consolato Villani e Federico Greve.
I tre collaboranti avrebbero indicato i due fratelli Roberto e Maurizio quali responsabili della morte e della sparizione del corpo di Barbara Corvi, il cui cadavere non è stato mai ritrovato. Consolato Villani riferiva al procuratore Liguori di essere parente dei fratelli Lo Giudice, per parte di madre, e di aver appreso da altro componente del clan, tale Giuseppe Reliquato, cognato di Nino Lo Giudice, tra fine ottobre e inizi novembre 2009, nel negozio “Tremulini” di Reggio Calabria gestito da Reliquato, della scomparsa di un’altra donna della famiglia Lo Giudice, riferendosi a Barbara Corvi, moglie dell’odierno indagato.
Nel clan dei Lo Giudice, infatti, era già sparita anche Angela Costantino, 25 anni, mamma di 4 figlie e moglie del boss della ‘ndrangheta, Pietro Lo Giudice, all’epoca detenuto a Palmi. La verità balzava agli onori delle cronache dopo 18 anni: Angela sarebbe stata strangolata in casa mentre il suo corpo veniva dato alle fiamme e distrutto. Il movente della sua condanna a morte riguarderebbe la propria relazione con un altro uomo mentre il marito era in cella.
Le testimonianze dei collaboratori di giustizia, fra i quali Maurizio Lo Giudice, fratello del boss Nino, avevano permesso agli inquirenti di individuare i tre responsabili dell’omicidio di Angela, poi arrestati nell’ambito di una operazione contro la ‘ndrangheta. Si trattava di Vincenzo Lo Giudice, altro fratello di Nino, considerato uno dei capi della cosca, il cognato Bruno Stilo e il nipote Fortunato Pennestrì.
La Cassazione ha confermato la pena a 30 anni di reclusione a carico di Bruno Stilo e Fortunato Pennestrì, ritenuti rispettivamente mandante ed esecutore materiale del delitto.