Dopo cento anni, secondo una prassi che sembra ormai consolidata, si negherebbe la cittadinanza italiana ai discendenti con una giustificazione che non sta in piedi: dopo tanto tempo non sono più italiani!
Roma – Si pone in questi giorni il problema dei nostri emigrati “di ritorno”, figli o discendenti dei nostri emigrati del 1800-1900. La nuova tendenza è quella di volere impedire o limitare l’accesso alla cittadinanza italiana dei discendenti, adducendo che dopo oltre cento anni, questi non sarebbero più cittadini italiani. Ma andiamo a vedere più da vicino chi erano questi emigranti e perché sono emigrati.
In proposito posso citare il foglio matricolare di Giuseppe Grossi, nato il 3 aprile 1885: Soldato di Leva di 1 categoria classe 1888, Distretto di Gaeta, presentatosi spontaneamente e lasciato in congedo illimitato il 30 settembre 1908, chiamato alle armi il 19 ottobre 1908 nel 2° Reggimento Artiglieria di Campagna. Appuntato in detto Reggimento il 31 dicembre 1909, Tale nel 12° Reggimento con sede in Capua e mandato in congedo illimitato provvisorio il 2 settembre 1910, concessa dichiarazione di aver tenuto buona condotta e di aver servito con fedeltà ed onore, chiamato alle armi per effetto del Regio Decreto n. 487 del 23 settembre 1911 e giunto il 16 settembre 1911, partito per la Tripolitania e Cirenaica ed imbarcatosi a Napoli il 13 ottobre 1911, rientrato in Italia per malattia e sbarcato all’isola dell’Asinara il 20 dicembre 1911, mandato in licenza straordinaria di giorni 60 per convalescenza il 19 dicembre 1911, rientrato nel Corpo il 27 febbraio 1912, mandato in congedo illimitato il 20 marzo 1912, chiamato alle armi per mobilitazione generale col R.D. 22 maggio 1915 e non giunto perché all’estero (America) il 24 maggio 1915, dichiarato disertore per non aver risposto alla chiamata della sua classe entro il limite di tempo stabilito dalla Circolare n. 556 del 1915, il 5 settembre 1915, denunziato al Tribunale Militare di Napoli il 31 dicembre 1915
Ora i discendenti del signor Grossi chiedono di recuperare la cittadinanza italiana. Se il signor Grossi non fosse emigrato negli Stati Uniti e poi in Brasile, e si fosse presentato alla chiamata militare, tornando dall’America, dopo tante guerre e tante ferite già sofferte, probabilmente sarebbe morto in guerra e non avrebbe avuto una discendenza che chiedeva di recuperare la cittadinanza italiana. Questo è solo un caso di emigrazione all’estero, storie di sofferenza, dolore e sacrificio in terra straniera, storie di rimesse degli emigranti che contribuirono a risanare le casse dello Stato.
Vorrei aggiungere che, trattando di questioni di cittadinanza, i discendenti di italiani nati in un altro Stato si distinguono dalle altre etnie proprio perché italiani di origine, e ciò è molto importante in luoghi, quali le Americhe, ove si mescolano molte etnie, tutte diverse, ed ognuno ha necessità di trovare la sua identità.
Quasi tutti gli italiani hanno un parente all’estero. Limitare o negare il diritto di cittadinanza ai discendenti di emigrati significa tradire la nostra memoria storica, discriminare una intera categoria di cittadini italiani, dimenticare la storia, le origini, le molteplici guerre, le cause della emigrazione.
Il fatto che in Italia vige lo ius sanguinis, sin dal tempo degli antichi romani, è un segno distintivo della nostra comunità e ciò ci differenzia da altri Ordinamenti, che hanno una diversa tradizione.
Nelle Americhe, ad esempio, sono tutti immigrati e perciò vige lo ius soli, altrimenti dovrebbero considerarsi invasori illegali di una terra straniera. In Italia lo ius sanguinis conserva la tradizione, dà valore agli antenati che ci hanno trasmesso questo bene, la cittadinanza italiana, ma gli italiani sembrano aver dimenticato questi principi. Difatti non si trattò solo di emigrazione, ma di una lotta per la sopravvivenza in quegli anni 1800-1900, lotta che fu vinta dagli emigranti quando trovarono condizioni di vita accettabili in terra straniera.