Dalla damnatio memoriae dell’antica Roma ai social network, la memoria collettiva continua a essere campo di battaglia ideologico, politico e tecnologico.
Gli eventi della storia si evolvono in continuazione a conferma del loro marcato dinamismo. Eppure ci sono aspetti che si ripetono, perché in ballo c’è sempre lo stesso concetto: il desiderio del potere dominante di stabilire cosa debba sopravvivere nello spazio pubblico della memoria o di movimenti antagonisti per rimarcare la loro esistenza politica. Lo spazio pubblico da occupare è lo stesso.
Uno dei fenomeni che si sono diffusi nell’ultimo decennio, destando clamore nell’opinione pubblica, è stato la “cancel culture”, attraverso cui individui o gruppi venivano emarginati, criticati o boicottati a seguito di comportamenti o affermazioni percepite come offensive o inaccettabili. Questo ostracismo, spesso amplificato dai social media, mirava a togliere sostegno e visibilità a chi era stato considerato colpevole, generando un dibattito acceso sui suoi effetti e sulla sua legittimità. In pratica, la cancel culture si manifesta quando un personaggio pubblico, un’azienda o anche un privato cittadino, a seguito di un’azione o dichiarazione considerata inappropriata, viene attaccato sui social media e, di conseguenza, perde il supporto del pubblico, a volte anche professionale o lavorativo.

Questo può portare a conseguenze come la perdita di lavoro, la rimozione di opere d’arte, la cancellazione di eventi o la perdita di contratti pubblicitari. Il fenomeno ha provocato scontri dialettici molto forti. C’è chi sostiene che sia una sorta di pena da espiare da parte di chi ha commesso degli sbagli.
Però c’è anche, al contrario, chi è del parere che possa essere una forma di censura e di rimozione del passato. In particolare nel corso del 2° decennio del nuovo secolo, l’espressione ha iniziato a circolare agli inizi degli anni 2010. Ma è nel 2017 col movimento #MeToo, nato per denunciare abusi sessuali, che si diffonde il concetto di “cancellazione” di individui che si sono macchiati di comportamenti scorretti. Infine nel 2020 diventa oggetto di discussione pubblica, soprattutto in relazione al movimento Black Lives Matter e alle proteste contro il razzismo, con casi di rimozione o vandalizzazione di statue e monumenti. Tutti questi eventi hanno manifestato lo stesso obiettivo: lasciare un segno che modifichi ciò che esiste.

Poi ci sono altri tipi di cancellazioni, come quelle effettuate dagli algoritmi. Uno dei casi più clamorosi è stato quando Meta, azienda tecnologica statunitense proprietaria, tra le altre, di Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger, ha oscurato immagini e notizie sulla Palestina, dopo l’efferato attentato di Hamas del 7 ottobre 2023. Non è stato l’unico episodio, se ne sono succeduti altri, come il “divieto ombra”, una pratica in cui una piattaforma digitale limita la visibilità di un utente o dei suoi contenuti senza che l’utente ne sia a conoscenza. Ossia, l’account e i post rimangono visibili all’autore, ma vengono resi invisibili o meno visibili agli altri utenti. O come quando vengono oscurate notizie di critica dell’ordine costituito.
In fondo non c’è da stupirsi poi tanto. Fa parte della natura e della storia umana. Già gli antichi Romani praticavano la “damnatio memoriae”, ovvero cancellare qualunque traccia di una persona, ogni riferimento alla persona, come se non fosse mai esistita. Un totale oblio, quindi di cosa meravigliarsi? Tuttavia i mezzi e gli strumenti di adesso sono più sofisticati, seducenti e subdoli. Agiscono e quando uno se ne accorge, forse, è troppo tardi!