Nell’ultimo discorso del magistrato ucciso dalla mafia uno sguardo alle giovani generazioni. Oggi 100 ragazzi a Palermo per ricordarlo.
Palermo – Una data restata nella storia: 19 luglio 1992. Nel primo pomeriggio di quell’estate caldissima il giudice Paolo Borsellino si reca in via Mariano D’Amelio, una strada stretta e senza uscita della città, dove abita la madre. Ad attendere il magistrato e i suoi cinque uomini della scorta, nascosti in una vecchia Fiat 126 rubata e parcheggiata nei pressi dell’abitazione, ci sono 100 chili di tritolo. Borsellino arriva e come tante volte scende dall’auto davanti al portone insieme ai suoi uomini e in quel momento, alle 16.58 del pomeriggio, a distanza viene azionato l’esplosivo. Ed è la fine per il giudice e la sua scorta.
Una morte annunciata, la seconda dopo quella del collega Giovanni Falcone, a 57 giorni di distanza. Due informative del Ros dei Carabinieri davano per imminente l’attentato. Una terza segnalava che “negli ambienti carcerari si dà il dottor Borsellino per morto”. Borsellino lo sapeva e ne aveva anche parlato con gli uomini della sua scorta. Per due volte era stata proprio la scorta a chiedere alla prefettura di bonificare i luoghi abitualmente frequentati dal giudice, in particolare la rimozione delle auto parcheggiate in via D’Amelio, sotto casa della madre, dove il giudice andava una volta alla settimana, ma nessuno fece nulla.
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino con la sua scorta va a trovare la madre. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’edificio dell’abitazione, con circa 100 kg di tritolo a bordo, esplode uccidendo oltre al magistrato gli uomini della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia. L’unico sopravvissuto è Antonino Vullo. E sarà lui il primo testimone a raccontare la vicenda: “Borsellino e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, mentre io ero rimasto alla guida. Stavo facendo manovra per parcheggiare la vettura che si trovava alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha scaraventato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto“.
Un boato in via D’Amelio, uno scenario di guerra dirà il racconto di uno dei poliziotti che arrivò subito dopo l’esplosione. Borsellino lo sapeva. Dalla morte di Falcone era cambiato tutto. Ripeteva spesso la frase: “Ora tocca a me”, non appena saputo del carico di tritolo arrivato a Palermo. Non gli restava che velocizzare le indagini sulla strage di Capaci e così fece. In un’agenda rossa annotava minuziosamente tutto. Un “diario prezioso” sparito dalla sua valigetta pochi minuti dopo la strage. La sua sparizione è un aspetto simbolico di una “verità nascosta o meglio non completamente disvelata”. Lo scrivono i giudici di Caltanissetta nella sentenza sul depistaggio con la quale il 12 luglio 2022 hanno prescritto due investigatori della polizia, Mario Bo e Fabrizio Mattei, accusati di favoreggiamento, e assolto un terzo poliziotto, Michele Ribaudo.
Secondo i pm, che hanno impugnato la sentenza, gli imputati avrebbero indottrinato dei falsi pentiti che sarebbero stati costretti a mentire e ad accusare della strage del 19 luglio 1992 – persone poi rivelatesi innocenti. Paolo Borsellino fu oltraggiato anche da morto, deviando da subito le indagini verso false piste, falsi pentiti, false prove. L’operazione inizia, mentre stanno ancora bruciando le automobili in via D’Amelio, proprio con la sparizione di quell’agenda rossa, volatilizzata per sempre nei minuti in cui gli uomini di La Barbera, superpoliziotto con doppio incarico nei Servizi, perlustrano per primi la scena dell’esplosione. I 57 giorni che separarono la strage di Capaci da quella di via D’Amelio furono i più difficili per Borsellino.
Duramente colpito dalla morte del collega e amico e nonostante fosse consapevole di essere il prossimo obiettivo della vendetta di Cosa Nostra, continuò a lavorare con frenetica intensità, ostacolato però dal capo della Procura palermitana Pietro Giammanco, il quale addirittura gli nascose il contenuto di un’informativa del Ros dei Carabinieri che segnalava il pericolo di un imminente attentato nei suoi confronti, circostanza che Borsellino apprese solo casualmente durante una conversazione con l’allora Ministro della Difesa Salvo Andò.
Non solo: in base ad alcune dichiarazioni rilasciate nei vari processi dal colonnello dell’Arma Umberto Sinico, sentito come testimone, si può stabilire che Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa nostra, ma che preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che l’organizzazione scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia. Il 29 maggio 1992, nel corso della presentazione del libro “Gli uomini del disonore” di Pino Arlacchi alla presenza dei ministri dell’Interno e della Giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla Superprocura.
Alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al Csm di riaprire il concorso e invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: “dal suo viso trapela una indignazione senza confini” Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: “La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento“. Il 25 giugno Borsellino tenne il suo ultimo discorso nell’atrio della biblioteca di Casa Professa nel corso di un dibattito organizzato dalla rivista Micromega durante il quale venne interrotto due volte da lunghi applausi.
“Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui essa appartiene”.
Per lui la “lotta alla mafia – disse ancora Borsellino – non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone […] quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”.
Oggi quelle giovani generazioni sognate da Borsellino, oltre cento ragazzi tra i 18 e i 30, selezionati dall’agenzia italiana per la gioventù, saranno a Palermo in occasione dell’anniversario della strage di via D’Amelio. Un momento di confronto e di riflessione per promuovere la diffusione della cultura della legalità contro tutte le mafie e la partecipazione e la cittadinanza europea dei più giovani. Al centro del dibattito, l’interconnessione tra i temi del rispetto reciproco e delle regole e i valori della bellezza e dell’arte.L’evento di quest’anno ha l’obiettivo di coinvolgere i giovani nell’educazione alla legalità, formarli alla cultura del giusto e del buono, e di contribuire al radicamento dei principi del rispetto dell’altro e delle regole, legando il concetto della legalità a quello di arte e di bellezza.