La strage venne rivendicata da Ordine Nero, ma tutti i membri del fronte toscano dell’eversione neofascista furono assolti. Ancora oggi per lo Stato non esiste un colpevole.
Bologna – Un filo rosso sangue collega l’attentato al treno Italicus del 4 agosto 1974 – cinquant’anni fa – a San Benedetto Val di Sambro con quello che sei anni anni dopo fece saltare in aria la stazione di Bologna, era il 2 agosto 1980. E non soltanto per la contiguità geografica e temporale delle due stragi, entrambe nei primi giorni d’agosto, su un convoglio nel mezzo dell’appenino bolognese la prima, nel cuore del capoluogo emiliano la seconda. Nemmeno per la medesima matrice neofascista, sancita dalle sentenze quella alla stazione, soltanto rivendicata la deflagrazione sul treno. Ma perché la seconda, con il suo tragico bilancio di morti, 85, e la valenza simbolica dell’aver colpito la città “rossa” per antonomasia, conquistò tragicamente nell’immaginario collettivo il titolo di “strage di Bologna”, fino al primo agosto 1980 appannaggio esclusivo dell’Italicus.
Proprio il 31 luglio 1980 il giudice Angelo Vella chiuse la sentenza-ordinanza sulla strage neofascista del treno del 4 agosto 1974 (12 morti e 50 feriti). Nella conferenza stampa del giorno dopo lo stesso magistrato diede notizia del rinvio a giudizio di tre imputati. Si trattava di Mario Tuti, Piero Melentacchi e Luciano Franci, membri del gruppo toscano del Fronte Nazionale Rivoluzionario, una delle sigle dell’eversione nera nate all’indomani dello scioglimento del Movimento Politico Ordine Nuovo del novembre 1973. Nel 1992 tutti saranno definitivamente assolti dalla Cassazione. Ancora oggi, per lo Stato italiano, non esiste colpevole. Meno di 48 ore dopo l’incriminazione dei neofascisti per l’Italicus, la strage di Bologna avrebbe cambiato luogo di riferimento spostandosi nel cuore della città, relegando San Benedetto val di Sambro a “strage minore”, quasi un capitolo secondario nel romanzo nero della Repubblica.
Cinquant’anni fa la strage dell’Italicus giunse al culmine di un’ escalation di azioni terroristiche che secondo i giudici rispondeva alla funzione di aprire la strada ad un colpo di Stato previsto per la primavera estate del ’74. In Toscana, il 21 aprile, si ebbe l’attentato di Vaiano, primo attacco alla linea Firenze-Bologna. Seguì a Brescia la gravissima strage di Piazza della Loggia, poi a Pian del Rascino la sparatoria con le forze dell’ordine nella quale perse la vita Giancarlo Esposti, estremista di destra che secondo alcune testimonianze progettava di attentare alla vita del presidente della Repubblica, colpendolo a fucilate durante la parata del 2 giugno.
Nella notte tra il 3 e il 4 agosto 1974, alle ore 1.23, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta vettura del treno espresso 1486 “Italicus” proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera mentre transitava all’altezza di San Benedetto Val di Sambro (Bologna). La deflagrazione squarciò la quinta carrozza del convoglio e innescò un incendio così potente da deformare le lamiere: nell’attentato morirono 12 persone, alcune per l’esplosione, altre arse vive, e altre 48 rimasero ferite. Il conto delle vittime avrebbe potuto essere ancora più tragico, nell’ordine delle centinaia, se il treno non avesse recuperato parte del ritardo accumulato, trovandosi così al momento dell’esplosione ad una cinquantina di metri dallo sbocco della Grande Galleria dell’Appennino, e non ancora al suo interno. Se il macchinista al momento del botto non fosse stato bravo ad accelerare piuttosto che a frenare istintivamente.
Al mattino si contarono 12 vittime, allineate sul marciapiede tra il secondo e il terzo binario, coperte da lenzuoli bianchi. Tra loro anche il piccolo Marco Russo, malato di leucemia: con la famiglia tornava da un viaggio a Firenze. I genitori, morti con lui, lo portavano in giro per l’Italia nella speranza di distrarlo dalla malattia. Tra le vittime, di età fra 14 e 70 anni, anche il giovane forlivese Silver Sirotti, medaglia d’oro al valore civile, controllore delle Ferrovie che fu tra i primi a soccorrere i passeggeri nella carrozza colpita, la quinta, sventrata quasi all’uscita dalla lunga galleria dell’Appennino toscoemiliano, e che morì sopraffatto dal fuoco e dal fumo.
La strage fu rivendicata dall’organizzazione neofascista Ordine Nero, ma non ebbe responsabili: tutti gli imputati processati – in particolare Mario Tuti e Luciano Franci, ritenuti leader e gregario della cellula toscana del Fronte nazionale rivoluzionario – furono assolti. Dieci anni dopo, un altro attentato all’interno della stessa galleria, quello del rapido 904 Napoli-Milano (23 dicembre ’84), costò la vita a 16 persone, 267 i feriti. La “strage di Natale”, attribuita a Cosa nostra, preannunciò una stagione successiva, non meno tragica di quella terroristica, che vedrà le stragi di Capaci e di via D’Amelio e gli attentati dell’estate del 1993.