Ci sono notizie che, quantomeno, suscitano curiosità in chi le apprende, tanto da sembrare bislacche. Una di queste è relativa alla “ciofeca”, che assurse agli onori della fama grazie al principe De Curtis nel film Totò a colori.
Roma – Il protagonista pronunciò la famosa sentenza: “Questo caffè è una ciofeca”, sputando l’intruglio che stava bevendo. Da allora la locuzione si è diffusa per indicare un caffè disgustoso e imbevibile e tutto ciò che provoca ripugnanza al gusto ed è sinonimo di schifezza. In realtà è considerata l’antenata del caffè ed era una bevanda molto diffusa nel meridione del nostro Paese e non solo. Ma allora, davvero la ciofeca è come viene intesa al giorno d’oggi?
In realtà, secondo gli esperti, il sapore non era così cattivo. A dimostrazione che la diffusione delle dicerie e dei pregiudizi può condizionare anche il palato, non solo le convinzioni concettuali. Carmine Lupia è un etnobotanico calabrese, considerato il massimo esperto di ciofeca in Italia e, probabilmente, nel mondo. Ha iniziato a studiare la ciofeca 30 anni fa ed ancora continua a farlo, cercando documenti e testimonianze. Da una rapida ricerca sul Web emerge che la ciofeca è un surrogato del caffè, un infuso frutto del miscuglio di orzo e altre piante. Il sito della Treccani ci suggerisce che si tratta di una mandorla per fare l’orzata e dall’etimologia incerta. Secondo Lupia in realtà si tratta di un infuso scuro ricavato dalle ghiande tostate e polverizzate, proprio come si preparerebbe un caffè.
E l’etimologia non è incerta, come sostiene la Treccani, ma deriva dal termine arabo “safek”, ovvero bevanda poco energetica. Gli arabi, infatti, durante l’Alto Medioevo si stanziarono per circa un secolo in Calabria e, secondo alcuni documenti, Catanzaro aveva lo stesso numero di campanili e minareti (le torri di una moschea da cui vengono richiamati i fedeli alla preghiera). La ciofeca non era considerata una bevanda qualsiasi, ma aveva i suoi riti, le sue regole e gusti differenti. Un po’ come succede per il caffè. Lupia ha dichiarato:
“Fino almeno al 1900, le ghiande erano ingredienti molto commerciati: ci si facevano un sacco di cose, come la farina, per esempio. Quindi ce n’erano molte di più e di diverse varietà. Oggi si usano praticamente solo come mangime per i maiali.”
Ogni paese aveva la sua ciofeca, secondo i gusti personali. Venivano prodotte, infatti, sia ciofeche monorigine, ricavate, cioè, da un solo tipo di ghiande che frutto di miscele diverse. Venivano utilizzate ghiande di sughero, di leccio, di roverella e altre ancora, ognuna con la sua particolarità. Poi iniziava il processo di tostatura che avveniva tramite “l’atturraturu”, una sorta di torchio per poi essere polverizzata. Infine, si usava la “cicculatera”, una specie di moka ante litteram, utilizzata per l’infusione. Se ne ricavava un gusto oscillante tra orzo e caffè. La bevanda era diffusa, soprattutto nel Sud Italia. Ma non mancano documenti che ne attestino il suo consumo anche nella provincia di Varese e in Emilia-Romagna, dove ci sono testimonianza di scambi commerciali di ghiande proprio per questo fine. La diffusione nel meridione era dovuto alla presenza massiccia di querce che non sopravvivono al clima più freddo del nord.
Oggi la ciofeca è quasi completamente scomparsa, pur trattandosi di una bevanda molto salutare, ricca com’è di polifenoli, che hanno proprietà antiossidanti e antinfiammatori. In qualche casa abitata da anziani, è possibile trovare gli utensili per prepararla, ma della bevanda non si avverte nemmeno il lontano profumo, soppiantata, ormai, dal caffè. Però è bene essere consapevoli che ha fatto parte delle nostre abitudini e tradizioni e che non era affatto disgustosa come una certa vulgata ci ha trasmesso. E che quando scompare qualcosa è come se morisse una parte di noi. Quindi, stiamo attenti a come definirla!