I cadaveri di due giovani carabinieri, gli anni di piombo e l’ombra della strategia della tensione. Per l’eccidio siciliano i veri colpevoli non hanno mai pagato: terrorismo nero, mafia e Stato?
Trapani – La notte tra il 26 e il 27 gennaio del 1976, in una piccola caserma dei carabinieri di Alcamo Marina, è una notte di piombo. Tra i fragorosi tuoni e la tempesta che imperversa sulle spiagge del lungomare dorato del trapanese, passano inuditi diversi colpi d’arma da fuoco. I giovani militari Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta vengono sorpresi e crivellati di proiettili nel sonno. A rinvenire i cadaveri, il mattino seguente, saranno gli uomini della scorta del segretario del MSI Giorgio Almirante, di transito proprio lungo la statale che una volta dava l’affaccio alla piccola casermetta Alkmar. Quello che gli uomini della sicurezza trovano oltre la porta divelta della piccola caserma è una delle pagine più oscure della recente storia italiana. Due giovani militari, uno appena diciannovenne, giacciono morti sulle loro brande. I corpi squarciati da una gragnuola di proiettili. Pochi mesi dopo vengono arrestati e accusati del duplice omicidio 4 giovani di Alcamo, a questi verrà estorta una confessione sotto tortura.
Creare il mostro
Per la tragedia di Alcamo Marina non ci sono colpevoli, non ci sono moventi men che meno la reale volontà di fare chiarezza. La prima pista battuta dagli inquirenti è quella della matrice politica, ma tutto cambia la notte dell’11 febbraio del 1976 quando tale Giuseppe Vesco viene fermato ad un posto di blocco a bordo di un’auto rubata. L’uomo viene trovato in possesso di una pistola, lo stesso tipo di arma utilizzata per la mattanza dei giovani militari. Vesco viene immediatamente posto in stato di fermo. Le indagini sono coordinate dal Nucleo Antiterrorismo di Napoli, così come lo svolgimento degli interrogatori. Durante uno di questi Vesco confessa il delitto, indicando come suoi complici altre persone: Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà. Tutti vengono arrestati e interrogati per diverse ore senza la presenza di difensori. Si tratta di interrogatori cosi estenuanti da spingere i quattro ad ammettere le proprie responsabilità nella strage.

Alcune ore più tardi i quattro indiziati vengono sentiti nuovamente, con al fianco i propri legali e tutti ritrattano le confessioni, denunciando maltrattatamenti ed abusi psicofisici durante gli interrogatori. Tutto ciò non basterà e i quattro giovani, con Gulotta appena diciottenne, vivranno un vero e prorio calvario lungo quasi quarant’anni, per chi riuscirà a viverlo. Mandalá infatti morirá in carcere nel 1998. Una prima speranza di portare la verità alla luce arriverà nel 2008 quando Renato Olino, ex brigadiere dei carabinieri del Nucleo Antiterrorismo di Napoli, interrogato dal Procuratore della Repubblica di Trapani, racconterà la terribile verità: Vesco dopo il fermo fu portato in caserma e sottoposto a torture come la privazione della vista e l’ingestione forzata di enormi quantità di acqua e sale. In seguito alla confessione estorta e la convocazione dei presunti complici della strage, vi furono altre torture e abusi fino all’estorsione delle “confessioni”.
Inizialmente, nonostante l’evidenza delle nuove prove, la Corte di Appello di Messina dichiara comunque inammissibile la richiesta di revisione del processo ritenendo gli accertamenti non idonei. In seguito la Corte di Cassazione, il 9 giugno 2009, annullerà il provvedimento e rimetterà gli atti alla Corte di Appello di Reggio Calabria, per il definitivo processo di revisione. Il 13 febbraio 2012, esattamente 36 anni dopo il primo arresto, la Corte di Appello reggina revocherà l’ultima sentenza di condanna, riconoscendo infine anche l’innocenza di Gulotta.
Patto criminale
Scavando nelle carte della strage impunita vengono a galla nastri “dimenticati” e dossier insabbiati. Spuntano collegamenti con l’omicidio dell’attivista Peppino Impastato, a casa del quale, subito dopo il suo omicidio, furono illegalmente sequestrati una serie di documenti tra i quali un fascicolo dal titolo “strage di Alcamo Marina”, un compendio dell’attività di contro-informazione sulla vicenda. Alcune intercettazioni “perdute” riaccendono invece i riflettori su uno dei personaggi che per decenni avrebbe fatto da trait d’union tra malavita e Stato: Vincenzo La Colla.

Quest’ultimo è un nome piuttosto noto nelle vicende criminali della zona e non solo. L’uomo era stato indagato dalla Procura di Firenze in una delle inchieste sulle bombe del 1993 e veniva arrestato nel 1998 e in seguito condannato con l’accusa di gestire un’arsenale di armi e munizioni da guerra in quella che diventerà la Corleone del trapanese, ossia Alcamo, a pochi chilometri dal luogo dell’eccidio del ‘76. A rendere tutto più torbido c’è anche il chiacchiericcio su un presunto carico di armi di cui Apuzzo e Falcetta sarebbero venuti a conoscenza durante un controllo di routine.
Secondo alcuni collaboratori di giustizia il carico di armi intercettato dai due militari pochi giorni prima della loro morte, sarebbe stato uno degli innumerevoli tasselli del piano Gladio e della conseguente strategia della tensione coordinata da personalità di spicco dell’eversione nera. Anche il fatto che quel maledetto 27 gennaio fu proprio la scorta di Giorgio Almirante a rivelare l’eccidio diede adito a speculazioni sulla matrice politica dell’evento delittuoso. Inoltre in quel crocevia di morte e crimine che fu Alcamo negli anni ‘70 s’innestava anche un traffico di rifiuti tossici gestito dalla mafia locale, al cui vertice c’era il clan Messina Denaro. Le scorie, secondo le ricostruzioni provenienti dal continente africano, venivano stoccate in Sicilia per poi essere spedite nei Balcani.
Nel febbraio 2020 il “Progetto Innocenti”, la Fondazione creata a Firenze da Gulotta per difendere le vittime di errori giudiziari, offre un nuovo spunto d’indagine dichiarando in un comunicato:
“La strage di Alkamar non era stata prevista, il progetto era un altro, ed era politico. Fu opera di terroristi di estrema sinistra, voleva essere una ritorsione al progetto stragista messo su da ambienti dell’estrema destra in Lombardia. Ma, qualcosa andò storto, il progetto fallì, quando Vesco Giuseppe, arrestato per quella strage, si decise a fare chiarezza, qualcuno aveva già deciso la sua sorte. La chiave di Alkamar è nell’indagine sulla strage di Brescia”.

Un’ulteriore sconvolgente quanto macabra suggestione. Insomma pare quasi impossibile che una scia lunga 50 anni di piste e indizi verosimili non abbiano portato all’identificazione degli autori materiali del delitto. Lampante balza all’occhio l’effettiva volontà di non voler dare un finale veritiero al gravissimo fatto di sangue in cui la vergogna è rimasta sepolta sotto la polvere del tempo. Per quella vergogna Giuseppe Gulotta ha pagato con 36 anni della sua vita:
“Negli atti ci sono tante cose di cui io non mi sono mai posto il problema – disse Gulotta durante un’intervista – se la colpa è di Gladio, della mafia o dei servizi segreti. So solo che negli atti si parla di queste cose, si parla di traffico d’armi, il fatto è che negli anni ‘90 ad Alcamo venne scoperta una delle più grandi raffinerie di droga d’Europa. Bisogna capire che cosa questi carabinieri avevano visto”.
La strage di Alkmar è destinata a rimanere senza mandanti e senza esecutori poiché, come dichiara Gulotta, l’unica verità è rimasta impressa negli occhi delle due vittime.