E potrebbero incentivare la disoccupazione nell’importante quanto vitale comparto. Occorre che il Governo, ma soprattuto l’Europa, pongano rimedi concreti.
La mannaia dei dazi si abbatte sul made in Italy. Tanto tuonò che piovve, è il caso di dire, nel caso dei dazi commerciali imposti dagli USA. Se ne parlava da tempo nelle segrete stanze del potere, ma anche nei salotti televisivi. Il momento tanto temuto è arrivato e tutti i nodi si sono manifestati in tutta la loro crudezza. Trump l’aveva annunciato durante la campagna elettorale ed essendo un uomo tutto d’un pezzo ha mantenuto la parola data.
Il 2 aprile scorso, infatti ha ufficializzato l’introduzione dei dazi, che si prevede avranno impatto sul commercio internazionale e anche sul business delle imprese italiane verso gli Stati Uniti. L’economia suggerisce che “i dazi sono imposte che vengono applicate sulle merci nel momento in cui attraversano un confine nazionale. Sono strumenti di politica economica utilizzati dagli Stati per regolare il commercio internazionale, con l’obiettivo principale di proteggere l’industria nazionale dalla concorrenza estera. Tuttavia, il loro utilizzo può avere ripercussioni economiche significative, sia per i consumatori che per le imprese”.
Per il made in Italy i dazi sono stati stabiliti al 15%, privando le imprese agricole italiano di oltre 1 miliardo di euro. Coldiretti (la più grande organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo) e Filiera Italia (associazione sorta per sostenere e valorizzare il cibo 100% italiano) hanno lanciato l’allarme sugli effetti dannosi sui prodotti nazionali. E sono guai seri per il settore, in quanto gli USA rappresentano un mercato molto importante per le aziende agroalimentari italiane. L’anno scorso il giro d’affari è stato di 8 miliardi di euro.

Con queste cifre è comprensibile la preoccupazione, anche perché il mercato statunitense, per i prodotti del Made in Italy, rappresenta un palcoscenico a livello mondiale. Secondo l’elenco diffuso da Coldiretti i dazi oscillano tra i 74 milioni di euro della pasta ai 140 per l’olio extravergine di oliva, per finire ai 290 del vino, che da anni è al primo posto tra i prodotti esportati oltreoceano. E’ un problema che riguarda, specificamente, l’agroalimentare, in quanto negli altri settori, l’export è addirittura cresciuto del 10,3%. Il pericolo concreto è la perdita di quote di mercato delle imprese italiane, a vantaggio di altri paesi, come Spagna, Grecia, Cile, Marocco che, viste le difficoltà italiane, sono pronte, come rapaci, ad assalire la preda.
Numerosissimi lavoratori occupati nell’agricoltura, trasformazione, distribuzione e logistica, rischiano di restare a spasso. Particolarmente colpiti i lavoratori delle aree rurali e dei territori caratterizzati dalla concentrazione di imprese che operano nello stesso comparto economico. Il problema è di difficile soluzione, anche perché la politica nazionale ed europea si è comportata, finora, come il protagonista della storiella del “lampione e l’ubriaco”.
“…Si narra che un ubriaco stava cercando qualcosa sotto un lampione, un poliziotto gli si avvicina e gli chiede cosa abbia perso. L’ubriaco risponde che ha perso le sue chiavi. Insieme cercano a lungo senza successo. Il poliziotto chiede all’ubriaco se è sicuro di averle perse lì. L’ubriaco ammette di non averle perse lì, ma più indietro, nel parco. Alla domanda del perché le stia cercando sotto il lampione, l’ubriaco risponde semplicemente: “Perché qui è più luminoso!..”.
Mentre i protagonisti della bislacca vicenda tentano di risolvere l’arcano, l’agroalimentare italiano chiede sostegno da parte del Governo. Innanzitutto con misure anti dazi, in pratica bussano a quattrini (sport di cui gli imprenditori italici sono maestri indiscussi), come crediti d’imposta e maggiore liquidità. Inoltre un ruolo più incisivo della Commissione Europa, finora prona nei confronti del gigante USA.
E’ l’Europa che deve adoperarsi con impegno, soprattutto per fare rete. Altrimenti assisteremo al depauperamento di un settore, ad una grave crisi occupazionale, e all’annientamento dell’aspetto culturale che l’agricoltura e il cibo hanno sempre rappresentato nel corso dei secoli!