Tra indagini insabbiate e commemorazioni di facciata, l’isola racconta il fallimento della classe dirigente italiana.
Sicilia – La Sicilia del 2024 assomiglia a un teatro dell’assurdo dove la finzione supera la realtà. Mentre i suoi rappresentanti istituzionali depositano corone di fiori sulle tombe di Falcone e Borsellino, la magistratura indaga alcuni di loro per corruzione e peculato. Non è ironia della sorte ma la fotografia spietata di una classe politica che sembra avere perduto ogni senso del limite.
Due nomi su tutti: Gaetano Galvagno, presidente del Parlamento regionale, ed Elvira Amata, assessora al Turismo. Entrambi militanti di Fratelli d’Italia, entrambi finiti nel mirino della Procura. Il primo accusato di aver usato la sua posizione per ottenere vantaggi personali, la seconda di aver trasformato l’assessorato in una macchina di clientele e favoritismi.
L’arte del nascondere
La strategia è sempre la stessa: silenzio, rimozione, negazione. Galvagno ha tenuto nascosta la sua situazione giudiziaria per mesi, continuando a presiedere l’Assemblea regionale come se nulla fosse. Solo quando la stampa ha sollevato il velo, è emersa la verità: da gennaio era sotto inchiesta, ma aveva scelto di non informare né il partito né l’istituzione che rappresenta.

La coincidenza temporale è emblematica: riceve l’avviso di garanzia alla vigilia dell’anniversario di Capaci, il giorno dopo partecipa alle celebrazioni ufficiali. In quell’istante si è consumato tutto il paradosso della politica siciliana: celebrare la memoria di chi è morto per la legalità mentre si è accusati (saranno le indagini a chiarirlo con certezza) di averla calpestata.
L’assessorato delle meraviglie
L’inchiesta su Elvira Amata apre uno squarcio su un sistema consolidato di gestione del potere. Il turismo, settore strategico per l’economia isolana, si sarebbe trasformato in un bancomat per consulenze fantasma e progetti mai realizzati. Fondazioni compiacenti, affidamenti diretti, parcelle gonfiate: un repertorio classico del malaffare che si credeva superato.

Ma la vera sorpresa non sono i reati contestati, quanto l’assenza di reazioni. Nessuno nel governo regionale ha sentito il bisogno di prendere le distanze, di chiedere chiarimenti, di invocare un passo indietro. Il presidente Schifani, che conosce bene il peso delle indagini giudiziarie avendone subite diverse, ha scelto la via del silenzio.
Il patriottismo come scudo
Roma non ha fatto meglio. Fratelli d’Italia, che ha costruito la sua identità politica sulla rivendicazione dei valori patri e del rispetto delle istituzioni, ha reagito con un riflesso condizionato: difendere a prescindere i propri rappresentanti. Non importa di cosa siano accusati, l’importante è respingere ogni critica come attacco politico.
Giorgia Meloni, che pure non perde occasione per invocare la legalità quando conviene, stavolta ha preferito non commentare. Ignazio La Russa, più coerente con il suo stile, ha parlato di “gogna mediatica”.

La strategia è consolidata: trasformare ogni inchiesta in una persecuzione, ogni accusa in un complotto.
La normalizzazione del degrado
Il caso siciliano rivela una mutazione antropologica della classe dirigente italiana. Non si tratta più di episodi isolati di corruzione ma di un sistema che ha normalizzato l’illegalità, che ha trasformato la furbizia in virtù e l’impunità in diritto acquisito.
Quando un presidente di Parlamento regionale può rimanere al suo posto pur essendo indagato, quando un assessore può continuare a gestire milioni di euro di fondi pubblici nonostante le accuse, quando tutto questo avviene senza che nessuno se ne scandalizzi, allora significa che abbiamo attraversato una soglia. Non siamo più in democrazia, siamo in post-democrazia.
Il prezzo della rassegnazione
La vera tragedia non sono i reati contestati ma l’indifferenza con cui vengono accolti. L’opinione pubblica siciliana sembra aver sviluppato una sorta di immunità morale, una rassegnazione che confina con la complicità. “Sono sempre stati così”, “almeno questi rubano meno”, “meglio i nostri ladri che quelli degli altri”: un rosario di giustificazioni che copre ogni nefandezza.
Ma questa rassegnazione ha un prezzo altissimo. Ogni volta che si tollera l’intollerabile, si abbassa l’asticella della decenza. Ogni volta che si giustifica l’ingiustificabile, si corrode un pezzo di democrazia. Ogni volta che si accetta l’inaccettabile, si tradisce la memoria di chi per la legalità ha dato la vita.
La Sicilia di oggi non è solo un problema siciliano. È il laboratorio dove si sperimenta il futuro dell’Italia, dove si testano i limiti della resistenza democratica. Se qui passa tutto, domani passerà tutto ovunque. Se qui l’impunità diventa norma, domani lo diventerà per tutti. La domanda non è più se la democrazia italiana sopravvivrà ma se merita di sopravvivere.