Lavoro e Intelligenza Artificiale: rivoluzione utile o trappola digitale?

Secondo il Focus Censis-Confcooperative, l’IA metterà a rischio 15 milioni di posti di lavoro in Italia. Eppure, tutto questo scompiglio genererà solo l’1,8% di crescita del PIL?

L’introduzione dell’IA nei processi sociali sta sconvolgendo il mercato del lavoro. Col serio rischio che molti lavori non ci saranno più, perché sostituiti dalle macchine. In parole semplici essa è uno sviluppo dell’informatica in grado di sviluppare sistemi per simulare l’intelligenza umana.

Lo scorso 4 marzo è stato presentato il “Focus Censis Confcooperative” dall’eloquente titolo “Intelligenza artificiale e persone: chi servirà chi?”. Il Censis è il più prestigioso centro studi di ricerche sociali nazionale. La Confcooperative è la principale organizzazione, giuridicamente riconosciuta, di rappresentanza, assistenza e tutela del movimento cooperativo e delle imprese sociali. Orbene, da questo intreccio di materia grigia, è emerso che nel prossimo decennio 15 milioni di lavoratori italiani rischieranno di avere a che fare con l’IA.

Nel prossimo decennio 15 milioni di lavoratori italiani rischieranno di avere a che fare con l’IA.

Di questo gruppo, 6 milioni scompariranno perché sostituiti dall’IA, mentre il resto dovrà inserirla all’interno del proprio lavoro. Secondo il rapporto a rischiare maggiormente sono i lavori con mansioni intellettuali automatizzabili. Riguarda principalmente: matematici; contabili; tecnici della gestione finanziaria; tecnici statistici; esperti in calligrafia; economi e tesorieri; periti, valutatori di rischio e liquidatori; tecnici del lavoro bancario; specialisti della gestione e del controllo delle imprese private e pubbliche.

Inoltre, ci saranno 9 milioni di lavoratori che saranno “costretti” a migliorare le proprie competenze digitali in modo da formare una sorta di funzionalità reciproca tra l’essere umano e la macchina. Le figure professionali coinvolti nel seguente processo, secondo il Censis, saranno le seguenti: direttori e dirigenti della finanza e amministrazione; direttori e dirigenti dell’organizzazione, gestione delle risorse umane e delle relazioni industriali; notai; avvocati, esperti legali in enti pubblici; magistrati; specialisti in sistemi economici; psicologi clinici e psicoterapeuti; archeologi e specialisti in discipline religiose.

Secondo il rapporto a rischiare maggiormente sono i lavori con mansioni intellettuali automatizzabili.

Una criticità paradossale è rappresentata dal fatto che i lavoratori a rischio annientamento a causa della furia devastatrice dell’IA sono quelli dotati di maggior titoli di studio. E poi dicono che studiare serve! Secondo i dati diffusi, il 64% dei lavoratori valutati a basso rischio detengono titoli di studio al massimo di scuola media superiore, mentre solo il 3% è laureato. Tutte quelle attività che saranno sostituite o integrate dall’IA, il 54% richiede il possesso del diploma superiore e il 33% della laurea. Per i lavoratori che avranno bisogno dell’integrazione dell’IA il 59% detiene la laurea e solo il 29% il diploma di scuola superiore. L’IA, per quanto sia di genere femminile, sembra non migliorare la condizione femminile. Infatti, il 57% di chi rischia il posto di lavoro è donna.

Infine, secondo gli autori dello studio, l’introduzione dell’IA nei processi lavorativi non deve essere vista solo come mera sostituzione o integrazione di attività, ma come l’occasione da cogliere al volo per aumentare la propria competenza professionale. Una mutazione del modello di riferimento con cui ci siamo relazionati finora, che secondo i più ottimisti, almeno dal punto di vista economico, nel prossimo decennio produrrà notevoli vantaggi. Le stime indicano in 38 miliardi la crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo), pari all’1,8% in più. Vale a dire “la montagna ha partorito il topolino”: tutto questo sconquasso per produrre una crescita solo dell’1,8%. Ne vale la pena?

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