Terremoto del Belice, a 57 anni dalla tragedia la ferita è ancora aperta [VIDEO]

Nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 il sisma distrusse interi paesi tra Agrigento, Trapani e Palermo. La lentezza nei soccorsi aumentò il dramma delle popolazioni. Poi la lenta e contraddittoria ricostruzione.

Palermo – La notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, 57 anni fa, la Valle del Belice, un’area rurale della Sicilia occidentale, fu sconvolta da uno dei terremoti più drammatici del XX secolo in Italia. Con una magnitudo stimata tra il 6,1 e il 6,4 della scala Richter, il sisma colpì principalmente le province di Trapani, Agrigento e Palermo, causando devastazione in decine di paesi e lasciando dietro di sé morte, distruzione e un’eredità di controversie e promesse mancate.

Il primo evento sismico si verificò il 14 gennaio 1968 alle 13.28, una scossa moderata che non causò danni significativi ma che avrebbe dovuto fungere da avvertimento. Tuttavia, nella notte tra il 14 e il 15 gennaio, una serie di scosse più violente colpirono la valle. La più distruttiva si verificò alle 3.01 del 15 gennaio, seguita da numerose repliche. L’epicentro del sisma fu localizzato tra i comuni di Gibellina, Salaparuta e Poggioreale, che furono quasi completamente rasi al suolo.

Il terremoto causò circa 370 morti, oltre 1.000 feriti e lasciò più di 70mila persone senza casa. Interi paesi furono ridotti a cumuli di macerie. Gibellina, Salaparuta, Poggioreale, Montevago e Santa Margherita di Belice furono tra i centri più colpiti. La popolazione si trovò improvvisamente senza rifugi, costretta a sopravvivere in condizioni precarie, in tende o baracche di fortuna, in un inverno rigido.

La situazione fu aggravata dalla lentezza dei soccorsi. Le autorità, nonostante gli allarmi e le scosse precursori, non avevano predisposto un piano di emergenza adeguato. Il ritardo nell’organizzazione degli aiuti, unito alla scarsità di risorse, aumentò il dramma della popolazione colpita. Le immagini di sopravvissuti che scavavano a mani nude tra le macerie, in cerca di parenti e amici, divennero il simbolo della tragedia.

La tragedia segnò un punto di svolta nel rapporto tra lo Stato e la gestione delle calamità naturali. L’emergenza rivelò le gravi carenze del sistema di protezione civile, che allora era pressoché inesistente. Fu solo negli anni successivi che si cominciò a discutere della necessità di un’organizzazione nazionale per la gestione dei disastri naturali, un dibattito che avrebbe portato alla nascita della Protezione Civile Italiana negli anni Ottanta.

Nel frattempo, lo Stato avviò un piano di ricostruzione per i comuni colpiti, ma si rivelò un processo lungo, inefficiente e, in molti casi, controverso. Le risorse stanziate furono ingenti, ma la burocrazia e la corruzione dilapidarono gran parte dei fondi. A distanza di decenni, molte delle comunità colpite continuano a pagare il prezzo di quella tragedia.

La ricostruzione fu caratterizzata da scelte urbanistiche e architettoniche innovative, ma spesso poco adatte al contesto culturale e sociale della valle. Alcuni paesi, come Gibellina, furono completamente ricostruiti in nuove località, lontane dai siti originari. Gibellina Nuova, in particolare, divenne un esperimento di arte contemporanea e architettura moderna, con contributi di artisti di fama internazionale come Alberto Burri, Ludovico Quaroni e Pietro Consagra.

Il Cretto di Burri, una gigantesca opera di land art realizzata sui resti della vecchia Gibellina, simboleggia oggi il dolore e la memoria di quella tragedia. L’opera, composta da enormi blocchi di cemento bianco, riproduce la pianta del paese distrutto, trasformandolo in un monumento al ricordo.

Tuttavia, non tutti i progetti di ricostruzione furono accolti favorevolmente. Molti abitanti lamentarono che i nuovi centri, pur moderni, mancavano del calore e dell’identità delle vecchie comunità, e che le case e le infrastrutture costruite non rispondevano sempre alle necessità della popolazione.

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