Il 12 maggio 1977 in piazza Navona è un corso un sit-in indetto dal Partito Radicale. Tra l’asfissiante nebbia dei lacrimogeni una ragazza di 19 anni si accascia per terra, un proiettile calibro 22 l’ha raggiunta alla schiena. La sua morte è un mistero che dura da 47 anni.
Roma – Il giorno 12 maggio 1977 è solo la tessera di un enorme mosaico definito tensione che farà da proscenio all’Italia per tutti gli anni ’70. Anni difficili, duri, gli anni di piombo. Quel giorno il ministro dell’Interno Cossiga si sta misurando con la sempre più crescente preoccupazione tra estremizzazione politica violenta e forze dell’ordine, tutto causato dai costanti conflitti tra frange estremiste e lo Stato, che da anni ormai stanno infiammando il Bel Paese. Durante quella primavera di nervosismo Cossiga pronuncia uno dei discorsi simbolo di quel momento storico che, come il tocco di una biglia su di un piano inclinato, non farà altro che esasperare una situazione già complicata. Di quel discorso uno stralcio in particolare: “Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana…”, creerà forti attriti. A seguito proprio di quel discorso in capo del Viminale impose il divieto di qualunque tipo di manifestazione fino il successivo 31 maggio. Il deputato radicale Marco Pannella decide di indire un sit-in di protesta in Piazza Navona. Cossiga consiglia di rinunciare: la tensione è troppo alta, si rischia lo scontro armato. Nessuno decide di arretrare sulle proprie posizioni e quel 12 maggio sarà un giorno di sangue. Ci saranno otto feriti e un morto, Giorgina Masi.
I fatti
Sono ormai passati tre anni dal vittorioso referendum sul divorzio, è con questo espediente che il Partito Radicale di Marco Pannella decide di sfidare il divieto parlamentare e attuare la riunione pacifica in Piazza Navona. Il Viminale freme. Solo pochi giorni prima, l’11 aprile, c’è stato l’omicidio di Francesco Lorusso per mano di un carabiniere a Bologna. Lo stato di agitazione è ai massimi livelli. Perfino i compagni del PC condivisero pochi giorni prima il provvedimento, assunto dal comitato interministeriale per la sicurezza. All’appuntamento non tardano a presentarsi anche frange più estremiste della sinistra extra parlamentare, ci sono quelli per il Movimento del ’77 e ci sono quelli di Avanguardia Operaia, alcuni sono armati.
La situazione precipita velocemente. Il Mininterno schiera 2.000 agenti in tenuta antisommossa coadiuvati da dirigenti in borghese tra i manifestanti. Volano le manganellate e le bombe carta, una coltre di fumo denso e acre ricopre interamente la piazza “eterna”. Sono all’incirca le 19 e gli scontri non accennano a stemperarsi. Pannella riesce a mediare con le forze dell’ordine schierate il deflusso dei manifestanti verso Trastevere. Quella che sembrava essere una mossa distensiva in realtà porterà gli scontri ad una ulteriore escalation. All’altezza di Piazza Giuseppe Gioacchino Belli cominciano a riecheggiare le esplosioni degli spari. Un proiettile sibila tra l’asfissiante nebbia dei fumogeni raggiungendo l’allievo sottufficiale dei carabinieri Francesco Ruggeri, ferendolo.
Altri proiettili si fanno strada tra la folla, forse esplosi dal vicino Ponte Garibaldi, uno di questi si conficca nella schiena di una giovane manifestante dai lunghi capelli corvini. Quella ragazza si chiama Giorgina Masi, per gli amici Giorgiana. E’ una studentessa diciannovenne del Liceo Pasteur e si trova in quella piazza dove è esplosa la guerriglia urbana in compagnia del fidanzato Gianfranco Papini. La Masi si accascia per terra, per alcuni testimoni sembrava fosse inciampata e rotolata per terra. Il fidanzato, chinatosi su di lei, nota subito il sangue sgorgare dal ventre. La donna verrà dichiarata morta una volta giunta in ospedale.
Chi ha sparato?
In quel rumoroso e caotico pomeriggio a dire il vero in molti hanno sparato. Il tragico bilancio sarà di altri otto feriti oltre il decesso della Masi. Nei giorni seguenti il Partito Radicale chiede numi sui fatti con un’interrogazione parlamentare, addossando a Cossiga la responsabilità morale del sangue versato. Dal canto suo il ministro degli Interni respinge le accuse, ricordando di aver sconsigliato il sit-in a causa dell’alto livello di tensione tra manifestanti e forze dell’ordine. Gli scontri di palazzo non aiutano alla ricostruzione dei fatti, già molto confusi di per sé. Diversi testimoni affermano che gli spari di quel pomeriggio sono stati esplosi dalle forze dell’ordine, ma ai vertici della polizia si dirà che le armi in dotazione agli aganeti non hanno mai sparato un colpo.
Cossiga in una prima interrogazione parlamentare nega la presenza di autorità in borghese, ma sarà costretto a ritrattare le dichiarazioni nei giorni seguenti. Verranno a galla diverse prove visive, tra cui scatti di fotoreporter, e video che immortalano agenti in borghese armati tra la folla per tutto il pomeriggio. A partire dalle prime schermaglie dalle parti di Campo de’ Fiori. Nei diversi scatti viene anche riconosciuto un poliziotto, Giovanni Santone, che indossa il tipico tascapane da “autonomo”. Il rebus si complica. Quale di quelle pistole ha fatto fuoco? Chi ha sparato?
I processi e l’archiviazione
La prima archiviazione dell’inchiesta arriva nel 1981 per mano del giudice istruttore Claudio D’Angelo, poichè gli inquirenti non sarebbero riusciti a risalire alla pistola che ha sparato. Il magistrato decide per il non luogo a procedere. In quel momento sarà l’avvocato Luca Boneschi l’unico a finire sul banco degli imputati. Nel 1978 rilascia una dichiarazione al Corriere della Sera in cui dirà: ” Giorgiana Masi non fu uccisa durante gli scontri tra dimostranti e polizia, ma allorché cercava di salvarsi dalla polizia…“.
In seguito il professionista commenta la sentenza del 1981 riportando all’attenzione diverse domande senza risposta. Ripropone foto, filmati e le perizie sui i bossoli rinvenuti e appartenenti ad armi da fuoco in dotazione alle forze dell’ordine. Tramite nuove analisi di esperti forensi Boneschi sconfessa la ricostruzione ufficiale degli agenti di polizia a dimostrazione che un proiettile esploso da Ponte Garibaldi, in quel momento occupato dai tutori della legge, trapassava la schiena di Giorgiana. Proprio sulle tesi di Boneschi si baserà una dichiarazione dal Partito Radicale, in accusa contro il giudice istruttore D’Angelo colpevole di non essere andato abbastanza a fondo nelle indagini. L’avvocato Luca Boneschi verrà denunciato per diffamazione.
Il caso irrisolto vedrà un rinnovato interesse nel 1998 quando, durante le indagini per l’omicidio della studentessa Marta Russo, avvenuto l’anno precedente, verrà trovata una pistola in un’intercapedine del bagno del Rettorato a La Sapienza. Lo stesso anno un collaboratore anonimo della Digos afferma che a sparare il colpo mortale era stato l’autonomo Fabrizio Nanni, fratello della brigatista Mara. Nell’ambito del fascicolo aperto su quest’ultimo viene confrontato il bossolo che uccise la Masi con la pistola de La Sapienza e con quelle rinvenute nei covi delle Brigate Rosse. Niente da fare, nessuna corrispondenza.
Ciclicamente vengono presentate interrogazioni parlamentari per cercare in qualche modo di accendere di nuovo i fari sulla tragica vicenda ma Giorgina Masi, che oggi avrebbe 66 anni, resta l’ennesima vittima a cui viene dedicato saltuariamente un ricordo senza ottenere giustizia.