Con la fine delle restrizioni, che hanno messo a dura prova la convivenza civile, la sensazione è che corpo e mente facciano fatica a “sincronizzarsi”. Un problema che riguarda i millennials, ma non solo.
Roma – Percorrendo le estese praterie del web ci si è imbattuti nell’espressione “il salto della pandemia”. Di primo acchito si è portati a pensare ad un nuovo sport per le prossime olimpiadi, dopo i consueti quattro tipi di salti: salto in alto, con l’asta, in lungo, triplo. A questi, vista la grave crisi economica che affligge molte famiglie italiane molte delle quali non riescono a mettere insieme il pranzo con la cena, si potrebbe aggiungere… “il salto del pasto”. Ma niente di tutto ciò. In realtà si tratta della traduzione di “The Pandemic Skip”, ovvero la sensazione, con la fine della pandemia e del lockdown, che corpo e mente potrebbero essere non sincronizzati. Tutto è iniziato da Katy Schneider, editor del “New York Magazine”, che sul giornale online “The Cut” ha pubblicato un articolo di riflessione sulla pandemia e sugli effetti che ha avuto sui cosiddetti “millennials”, i nati tra il 1980 e i primi anni del 1990.
L’autrice ha narrato la sua storia personale. Dopo un anno dalla pandemia, insieme a sua madre e sua sorella hanno iniziato a discutere su chi fosse stato privato maggiormente di esperienze di vita. Forse quella che se l’era cavata meglio era lei stessa, a 27 anni. La sorella, 24 anni, rimasta senza amici, con poche probabilità di avere successo sul lavoro, dato che passava le giornate sprofondata sul divano del soggiorno. Poi, la madre di 57 anni che non è un’età avanzata, ma a quella età ogni anno conta, eccome! Dopo tre anni, al compimento dei trent’anni, l’autrice ha notato dei cambiamenti tra le persone di sua conoscenza, com’è ovvio che fosse. E’ chiaro che il Covid abbia prodotto un cambiamento nella nostra percezione del tempo e sono sorte nuove domande. Una di queste è stata:
“E’ una condizione normale, dopo la pandemia, sentirsi non in grado di crescere”? Ampliando l’orizzonte delle sue osservazioni non solo ai millennials, l’autrice è giunta alla conclusione che le persone di tutte le fasce d’età non abbiano colto l’occasione di essere infantili, di cadere in errore e di rimettere mano alla propria esistenza. A soffrire di più per questa condizione sono stati i trentenni e, soprattutto le donne che avvertono maggiormente il fardello dei ritmi di funzionamento quotidiani, ovvero delle variazioni che quotidianamente coinvolgono le attività biologiche.
L’articolo della Schneider ha rappresentato un’occasione per alcune riflessioni sulla pandemia. Indubbiamente è stato un periodo di sconvolgimento totale delle relazioni interpersonali, relazionali e di lavoro. Esseri costretti a restare isolati in caso è stata dura per tutti, soprattutto per gli adolescenti, che in un attimo hanno perso tutti i loro punti di riferimento, scuola e amici. E’ vero che si è sperimentata la scuola a distanza, ma gli effetti non sono stati granché positivi, forse perché si è ancora alle prime armi ed il processo di rinnovamento non è stato perfettamente metabolizzato. Così per lo smart working, anche qui luci e ombre. E’ nato come una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati.
Nei fatti, spesso, ha creato solo confusione tra lavoro produttivo e lavoro di cura, finendo anche per accrescere i costi di riscaldamento, connessione e dei condizionatori d’aria. E’ senz’altro vero che si è risparmiato sui costi di trasporto e sullo stress per il viaggio, però a ricavarne i maggiori vantaggi, come sempre nella storia, sono state le aziende. Ora, si riuscirà ad uscire dalla crisi pandemica, come è successo alle generazioni precedenti in altri contesti, per crearci un futuro più positivo di questo ed andare oltre? Da come siamo messi ci troviamo ancora in alto mare!