I lavoratori “poveri”, in crescita, sono 3 milioni e secondo l’Inps vivono 5 anni in meno rispetto ai più “ricchi”. Penalizzate soprattutto le donne.
Roma – “Cornuti e mazziati!” E’ proprio il caso d utilizzare un’espressione del genere per definire lo stato degli operai. Letteralmente significa “becco e percosso” ed è una locuzione cara al vernacolo partenopeo per esprimere l’italiano “il danno e la beffa”, prendendo a termine di paragone il povero ovino assurto a modello ed emblema del marito tradito, ma qui simbolo di chi, avuto un torto, debba subire anche lo scherno. Altrove, in maniera molto più icastica e cruda, più estesamente si vuole affermare “a sciorta d’ ‘o piecoro: nascette curnuto e murette scannato”. Cioè “è veramente amara la sorte del becco che nacque cornuto e morì sgozzato”; la medesima sorte, cioè, del marito tradito che oltre a sopportar il peso delle corna, spesso deve subire anche l’onta delle percosse.
Qui però non si tratta di “corna” ma delle condizioni socio-economiche ed esistenziali degli operai. Pensate: l’Inps, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, si è accorto che i lavoratori con salari bassi vivono cinque anni in meno rispetto a chi percepisce emolumenti più sostanziosi. Per forza, con tutto quello che hanno dovuto “sopportare” durante la loro vita lavorativa non potevano che subire, oltre al danno di un lavoro poco remunerativo, la beffa di vivere pure meno! E’ il “quadro” che è emerso dal XXII Rapporto annuale dell’Inps presentato lo scorso 13 settembre presso il Palazzo Montecitorio. Oggi le pensioni vengono calcolate con un “coefficiente di trasformazione unico”, che è una grandezza numerica utilizzata per determinare l’importo della pensione. Ora questo sistema, secondo l’Inps, danneggia i lavoratori con redditi bassi che percepiranno una pensione inferiore se si tenesse conto dell’effettiva speranza di vita. Al contrario, i lavoratori ad alto reddito usufruiscono di una pensione più elevata rispetto a quella desunta dalla durata media della loro vita.
Sono 16 milioni gli italiani in pensione, che confrontati con i lavoratori attivi, 23,5 milioni e le nascite in parabola discendente, produce molta sofferenza per i già disastrati conti pubblici. Secondo il rapporto dell’Inps, i lavoratori poveri nel 2022 hanno raggiunto la cifra di oltre 20 mila, pari all’0,2% di tutti i dipendenti. In dettaglio: 7.600 con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e circa 13 mila a tempo determinato. Ci dovrebbero spiegare come vengono calcolate queste cifre. Si ha l’impressione che diversi enti governativi… diano i numeri. Purtroppo non si tratta di quelli del lotto – almeno si potrebbe sperare in una vincita! – ma dell’insensatezza di certi dati.
Le cifre dell’Inps, infatti sono di gran lunga inferiori ai dati diffusi dall’Eurostat e dal Ministero del lavoro, secondo cui i lavoratori “poveri” sono 3 milioni. Dal rapporto dell’Inps, emerge, inoltre, che il 2022 sembra essere stato un anno alquanto controverso. Nel senso che la povertà è stata direttamente proporzionale all’aumento del numero dei lavoratori. Ma, come spesso accade, “il veleno sta nella coda”. Nel senso che la parte più sgradevole è alla fine del rapporto e riguarda le donne. Come lavoratrici, percepiscono pensioni di 1/3 più basse rispetto agli uomini. Inoltre subiscono una maggiore discontinuità lavorativa, che, sovente, è determinata anche dalla gravidanza e conseguente allattamento e cura del bambino oltre che degli anziani, incombenza, quest’ultima, che ricade quasi sempre sulle spalle delle donne. Se ne deduce , comunque, una situazione a tinte fosche, che andrebbe affrontata con decisione ed equità, affinché le differenziazioni tra percettori di salari e pensioni.