Il 29 luglio 1983 un’autobomba uccide il magistrato, due carabinieri e il portinaio dello stabile. Il ricordo della strage e del lungo iter processuale.
“Palermo come Beirut”. Era uno dei tanti giornali del 1983 il giorno dopo la morte di Rocco Chinnici. Perché dopo l’esplosione della bomba in via Pipitone Federico quello che rimaneva della strada era solo un grande ed enorme cratere.
Da questa strage, in cui sono morti il consigliere Rocco Chinnici, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato scelto Salvatore Bartolotta, il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi, mentre l’autista di Chinnici, Giovanni Paparcuri, è sopravvissuto per miracolo, sono trascorsi quattro decenni.
E mentre la gente piangeva la morte di Chinicci, la città aveva alle spalle gli omicidi di Mario Francese, del giudice Cesare Terranova, del capo della Mobile Boris Giuliano, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, del presidente della Regione Piersanti Mattarella, del segretario del Pci Pio La Torre, del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, del procuratore Gaetano Costa, del capitano Mario D’Aleo.
LA STRAGE
Era il 1983. Alle 8 di mattina di una calda giornata di fine luglio una Fiat 126 verde, imbottita con 75 chili di esplosivo, scoppia. Uccide sul colpo Chinnici e altre tre persone e ferisce l’autista Parpacuri, che ancora oggi porta i segni dell’attentato.
Ad azionare la bomba, come scopriranno i magistrati, è stato Antonino Madonia, boss di Resuttana, che era nascosto nel cassone di un furgone rubato parcheggiato nelle vicinanze della via.
I primi ad accorrere sono i due dei figli di Chinnici, Elvira e Giovanni, rispettivamente di 24 e 19 anni, che al momento dell’esplosione erano in casa.
I PROCESSI
I processi sono stati numerosi e l’iter giudiziario è stato molto lungo e complesso, perchè iniziato nel 1983 si è concluso dopo quasi un ventennio, il 24 giugno 2002.
Il primo processo è finito con la condanna dei fratelli Salvatore e Michele Greco, che sono stati tuttavia assolti nel terzo processo d’appello. Scarpisi e Rabito sono stati condannati a 22 anni per concorso in strage, mentre Ghassan è stato assolto.
Nel 1985 la Cassazione annulla la sentenza per vizi di forma e stabilisce l’avvio di un nuovo processo presso la Corte d’assise d’appello di Catania.
Un anno dopo a Catania si apre il secondo processo d’appello che è finito con la conferma di tutte le condanne espresse alla Corte d’appello d’assise di Caltanissetta. Tuttavia il 18 febbraio 1988 le Sezioni unite penali della Cassazione hanno annullato la sentenza e ridisposto un nuovo giudizio, questa volta davanti alla Corte d’assise d’appello di Messina.
A dicembre del 1988 si apre dunque il terzo processo d’appello. Il giudice Giuseppe Recupero ha assolto per insufficienza di prove tutti gli imputati dal reato di strage ma li ha condannati per associazione mafiosa: dodici anni di reclusione per Michele Greco, dieci anni per Salvatore Greco. A Scarpisi e Rabito sono stati invece comminati cinque anni e dieci mesi, perché appartenenti alla medesima associazione a stampo mafioso. Il 9 gennaio 1990 la Cassazione ha reso definitive le assoluzioni di tutti gli imputati dal delitto di strage.
Tuttavia la Procura di Reggio Calabria, sulla scorta di nuove dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia messinesi Paolo Samperi, Paolo De Francesco e Umberto Santacaterina, ha aperto un nuovo filone di inchiesta. Questa volta sotto processo è stata messa la sentenza di assoluzione per la strage emessa dalla Corte d’appello di Messina.
Nel 1995 sono stati emessi avvisi di garanzia nei confronti del giudice Giuseppe Recupero, dell’ex ministro della Difesa Salvo Andò e dell’ex presidente della Regione Siciliana Giuseppe Campione. I tre per l’accusa sarebbero intervenuti per “aggiustare” il processo e favorire l’assoluzione degli imputati.
Nel 1998 il gip di Reggio Calabria si è dichiarato incompetente e ha così trasmesso gli atti alla Procura di Palermo, dove l’inchiesta purtroppo si è arenata.
Nel 2002 la Corte d’assise di Caltanissetta ha infatti condannato all’ergastolo come mandanti dell’attentato i vertici della “Cupola” mafiosa (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Antonino Geraci, Giuseppe Calò, Francesco Madonia, Salvatore Buscemi, Salvatore Montalto, Matteo Motisi, Giuseppe Farinella) e, come esecutori materiali, Antonino Madonia, Calogero Ganci, Stefano Ganci, Vincenzo Galatolo, Giovanni Brusca, Giuseppe Giacomo Gambino, Giovan Battista Ferrante, Francesco Paolo Anzelmo.
Lo stesso anno la Corte d’assise d’appello ha modificato le sentenze di alcuni imputati: Matteo Motisi e Giuseppe Farinella sono stati assolti, mentre i collaboratori Anzelmo e Brusca sono stati condannati a quindici anni anziché i diciotto.
L’anno successivo la Cassazione ha confermato la sentenza d’appello della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta.