Mancano pochi giorni al Natale del 1989 quando Adriana Levi, ricca e colta antiquaria ebrea di 66 anni, viene barbaramente uccisa nel suo appartamento-museo milanese dopo una cena casalinga con pochi amici. Un mistero lungo 34 anni, un giallo in piena regola, archiviato dopo dodici mesi per mancanza di risposte alle poche ipotesi di partenza.
Milano – Prigioniera, da bambina, insieme ai genitori, nel carcere di San Vittore, a Milano, Adriana Levi fu poi deportata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, dove si trovava anche Anna Frank. Sopravvissuta a quell’orrore, divenne una donna che la vita non piegò ma, anzi, rese forte, fiera e coraggiosa. In seguito, la sorte non le risparmiò neanche due vedovanze, dal cui dolore uscì grazie alla sua passione per l’arte, le cose belle, l’antiquariato.
Amava circondarsi di molti amici, per i quali spesso organizzava cene nella sua casa al piano terra di corso Magenta 69, dove si trovava anche il suo negozio di antichità “Il cenacolo”, allora assai noto in città. E proprio nella sua splendida abitazione di 350 metri quadri, affollata di oggetti di grande pregio, antichi e moderni, la mattina del 20 dicembre 1989 fu trovata morta, colpita selvaggiamente al viso e accoltellata una decina di volte al torace.
Ma che cosa accadde, di preciso, in quella casa durante la notte tra il 19 e il 20 dicembre? Alle 3 e 21 esatte sappiamo che scattò l’allarme antintrusione. Una vicina chiamò la questura e arrivò una volante della polizia per un controllo. Ma poco dopo la sirena cessò di suonare. Tutto sembrava tranquillo, nessun rumore, nessun sospetto. Si pensò a un banale falso allarme.
La mattina seguente, Adriana – persona puntualissima – non aprì il negozio. Il suo aiutante, preoccupato, chiamò una vicina in possesso di un doppione delle chiavi di casa. Entrarono e si trovarono immersi nella scena del crimine: luci accese, il corpo senza vita della donna nel disimpegno della camera da letto, per terra, ancora in camicia da notte e ovunque sangue.
Il medico legale spiegò che ad ammazzarla non furono le coltellate nella zona del torace, bensì uno o più forti colpi al viso, intorno all’occhio, sferrati con un pesante corpo contundente.
La prima (e più semplice) ipotesi formulata dagli inquirenti fu quella della rapina finita male. Tuttavia, l’inventario dei beni presenti nell’appartamento rivelò che erano stati trafugati soltanto gioielli e sottratto denaro contante. Nulla più. Molti degli oggetti di valore inestimabile che sarebbe stato agile portare via – e che probabilmente avrebbero fruttato molto di più rispetto al bottino ottenuto – in realtà erano rimasti al loro posto. Scelta bizzarra per dei ladri professionisti.
E poi c’era un’altra questione che poneva in dubbio la dinamica della rapina ad opera di ladri e che, ad oggi, resta il nodo centrale di tutta la vicenda: il sistema antifurto. Dapprima entrato in funzione, poi messo a tacere e, infine, reinserito.
Un dettaglio preciso vuole che l’appartamento fosse suddiviso in quattro zone, le quali, la mattina dopo il delitto, risultarono tutte stranamente con l’impianto di allarme inserito, compresa la zona notte, che Adriana si accingeva a occupare, dal momento che venne ritrovata in camicia da notte, pronta ad andare a letto.
Inoltre, il pannello di controllo indicava il passaggio di qualcuno solo all’interno di tre delle quattro zone. Peccato che la zona apparentemente ignorata dall’intruso fosse proprio quella in cui avvenne il furto di denaro e di preziosi. Qualcosa non tornava. L’impianto era stato manipolato col tentativo di confondere, di depistare. E chi lo aveva fatto conosceva bene quella casa e come muoversi al suo interno.
Prese, così, corpo un secondo scenario, che portò gli investigatori a focalizzarsi su quanto accaduto in quelle stanze poche ore prima dell’omicidio, ossia durante l’ultima cena di Adriana, e sugli ospiti presenti. Tra cui, forse, si nascondeva qualcuno coinvolto nell’orrenda vicenda.
La sera del 19 dicembre, in corso Magenta 69, al tavolo della sala da pranzo della vittima sedevano 5 invitati: un discografico con la consorte, un pittore accompagnato dalla moglie e un musicista. Era presente anche il domestico filippino, il quale, però, se andò via prima di tutti, attorno alla mezzanotte.
Gli altri, invece, restarono fino a circa a le 2, quando la donna, congedandoli, diede loro dei piccoli doni di Natale, che consegnò uno ad uno. Al musicista – si seppe – lo consegnò per ultimo, dopo che tutti gli altri se ne furono andati.
È in merito a quest’ultimo che gli inquirenti decisero di saperne di più, sia per la particolare amicizia che esisteva tra lui e la vittima, sia perché, a quanto pareva, era stata l’ultimo ad avere visto l’antiquaria viva.
Romano si chiamava trentacinquenne flautista della Scala di Milano, conosciuto a teatro un anno prima e diventato amico fidato di Adriana, il suo “pupillo”, per il quale sognava un futuro da concertista. Fu così che alla cena invitò anche un discografico, in modo che si conoscessero e che potessero simpatizzare. Da cosa poteva nascere cosa, insomma. Ecco che la pista del giovane flautista prese sempre più piede.
Prima di tutto, gli investigatori cercarono di definire l’orario preciso in cui la 66enne rimase si nuovo sola nell’appartamento. Spuntò una prova, ovvero lo scontrino della vicina farmacia – dove si recò una delle due coppie subito dopo la cena – che, come orario, recava le 2.27. Romano affermò di essersene andato solo pochi minuti dopo gli altri. Ma quanti erano, in realtà, questi minuti? Cinque, dieci o di più? E non c’era un testimone che potesse confermare o smentire?
Fu ascoltata la moglie del musicista, la quale gli fornì un valido alibi. Quella notte fu svegliata dal pianto del figlioletto. Ne ricordò con precisione l’orario, lo stesso in cui sorprese il marito che, di ritorno dalla cena a casa di Adriana, stava trafficando in cucina col televisore.
A quel punto, anche l’ipotesi della cena con l’assassino svanì. Le indagini stavano di nuovo a zero. Ma, poi, per quale ragione Romano avrebbe dovuto massacrare l’amica che lo teneva sotto la sua ala, che lo proteggeva, che si era offerta di aiutarlo a fare carriera? Mancava il movente, così come mancava l’arma del delitto che, in un primo momento, si pensò fosse un candelabro non presente all’appello, poi ritrovato nel laboratorio del negozio qualche settimana dopo il delitto, portato lì qualche tempo prima dalla stessa Adriana Levi per essere lucidato.
Si cercò anche di scavare nel lavoro della donna, supponendo un affare misterioso, la compravendita di un oggetto particolarmente prezioso che aveva deciso di tenere a casa e non in negozio e che poteva aver attratto qualche collezionista deciso a tutto pur di entrarne in possesso.
Oppure l’antiquaria stava chiudere una trattativa riservata che avrebbe pagato in cash. Il che spiegherebbe la presenza, all’interno dell’abitazione, di una grossa somma di contante (quella sottratta ammontava a circa 20 milioni di vecchie lire). Domande a vuoto – queste – dal momento che non emersero né affari misteriosi né trattative riservate.
Per un breve periodo si tornò allo scenario della rapina, probabilmente per mano di sbandati o di tossicodipendenti in cerca di denaro liquido e di una refurtiva facile. Ma la questione era la stessa: nessun testimone, nessuna prova, nessun’arma. Il caso allora si sgonfiò e si chiuse definitivamente.
Come già per altri delitti irrisolti, a distanza di 34 anni lasciano perplesse le metodologie delle indagini e le tecniche di investigazione di allora. E non si tratta solo della mancanza di quelle tecnologie e di quei mezzi oggi normalmente impiegati dagli inquirenti, tra cui i tabulati telefonici dei cellulari, le immagini video acquisiste dalle telecamere di videosorveglianza e l’esame del Dna (che, pure, avrebbero fatto la differenza).
Il problema di fondo è culturale: a quel tempo non esisteva ancora l’abitudine di conservare meticolosamente tutti i reperti recuperati sulla scena del crimine, molti dei quali venivano, nel corso del tempo, persi o addirittura distrutti. Pensiamo solo alla vestaglia indossata da Adriana Levi. Oggi (ma già nel decennio successivo) sarebbe stata molto utile alle indagini grazie alle conoscenze della scientifica forense, che avrebbero reso possibile puntuali esami e comparazioni alla ricerca delle tracce del killer.