Quella di Lidia Macchi è la storia di un barbaro assassinio irrisolto, ormai cristallizzato nel tempo. È la sera del 5 gennaio 1987 quando la 21enne di Varese scompare, per poi essere ritrovata cadavere due giorni dopo, massacrata da 29 coltellate. Da quel momento le indagini seguono più di una pista. Ma nessuna di esse ha mai condotto al colpevole.
Varese – Lidia Macchi oggi sarebbe una donna di 57 anni. Ma il tempo si è fermato a quando era una studentessa di giurisprudenza, capo scout della sua parrocchia e attivista di Comunione e Liberazione. Dalle descrizioni che restano di lei, sappiamo che era una ragazza piena di vita e di ideali, dai molti interessi e dalla profonda fede cattolica, altruista e attenta al prossimo.
La sera in cui si persero le sue tracce, era andata a fare visita, con la Fiat Panda del padre, a una cara amica ricoverata presso l’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. Proprio a due chilometri da lì, la mattina del 7 gennaio 1987 venne avvistata la macchina, accanto alla quale la giovane giaceva a pancia in giù, priva di vita, straziata dalla follia omicida del suo carnefice.
Sul luogo del crimine, in una strada sterrata nell’area dei boschi di Sass Pinin, nel varesotto, gli investigatori rilevarono soltanto una macchia di sangue sul sedile anteriore dell’auto, lato passeggero, e le chiavi ancora nel cruscotto. Mentre, l’esame autoptico confermò che Lidia, prima di essere ammazzata, subì o ebbe in modo consensuale il suo primo rapporto sessuale.
Ma chi, e per quale motivo, ha voluto spezzare in modo così efferato la vita di una ragazza in pace col mondo? La domanda, purtroppo, è ancora aperta.
Anche dell’arma del delitto, a 36 anni di distanza, non si sa nulla. Il medico legale ipotizzò si trattasse di un coltello Opinel, in quanto compatibile con le ferite presenti sul corpo della giovane. Ma non è mai stato ritrovato, né allora, né in ricerche più recenti.
Il primo iscritto nel registro degli indagati (in cui rimase fino al 2014) fu un sacerdote 38enne, Don Antonio Costabile, molto vicino alla vittima poiché spesso si incontravano negli ambienti religiosi frequentati da entrambi. I due erano amici.
A insospettire gli investigatori furono, in particolare, l’alibi assai debole del prete e una pagina del diario di Lidia, in cui l’espressione “amore impossibile” – usata da una ragazza di 21 anni chissà con quale intento e con quale riferimento – fece addirittura pensare all’esistenza di una relazione sentimentale tra i due.
Un po’ poco, in realtà, per inchiodare l’uomo che, nonostante le ipotesi inconsistenti, venne definitivamente scagionato e dichiarato innocente la bellezza di 27 anni dopo, con scuse (telefoniche) da parte della procura di Milano.
Una seconda pista vagliò la possibilità che la giovane potesse essere stata stuprata e uccisa da uno sconosciuto, un maniaco del luogo avvistato nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio proprio un paio di giorni prima del delitto e di cui fu ricostruito un identikit. Ma anche questa tesi non portò a niente, dal momento che la persona descritta non venne mai identificata.
A quel punto, il buio. Gli inquirenti allora cominciarono a scavare tra i giri di amicizie di Lidia e tra gli ambienti ecclesiastici a lei più vicini, senza però giungere ad alcuna verità. Le indagini si avvitarono su loro stesse, esaurendosi.
Solo nel 2013 si tornò a parlare del delitto Macchi. Questa volta con un nuovo indagato: un ex imbianchino di 58 anni, Giuseppe Piccolomo, già agli arresti, nel 2006, per omicidio colposo contro la moglie e condannato all’ergastolo nel 2011 per l’omicidio dell’82enne Carla Molinari nella sua casa in provincia di Varese, dove fu anch’essa selvaggiamente accoltellata, oltre che amputata delle mani. Da lì il macabro soprannome di “killer delle mani mozzate”.
Quello che attirò l’attenzione degli investigatori fu il fatto che l’uomo, a gennaio del 1987, cioè quando Lidia venne uccisa, aveva la residenza in una località assai vicina al luogo dell’assassinio e – elemento ancora più importante – ai quei tempi aveva caratteristiche fisiche simili a quelle del maniaco del parcheggio dell’ospedale. Gli identikit dei due uomini, infatti, sembravano combaciare.
Tuttavia, a fare vacillare queste ipotesi fu l’impossibilità di comparare il liquido seminale trovato sul corpo della giovane durante l’autopsia con quello di Piccolomo, perché andato distrutto nel 2000 insieme ad altri reperti inerenti all’omicidio. Ma il colpo decisivo si ebbe con la non corrispondenza tra il Dna rilevato dai reperti rimasti della vittima e quello del killer. L’indagine era di nuovo a zero.
A distanza di un anno, la svolta. Il caso riaprì sulla base di un fatto che risaliva al 10 gennaio 1987 e che portò sulla scena un nuovo (e ultimo) indagato, Stefano Binda, allievo dello stesso liceo in cui studiò Lidia e compagno di Comunione e Liberazione, dottorando in filosofia ed ex tossicodipendente quando fu consumato il delitto, 47enne intellettuale e con lavori saltuari ai tempi della ripresa delle indagini.
Tutto ruotò attorno a una lettera anonima scritta a mano, dal titolo “In morte di un’amica”, recapitata alla famiglia della vittima 3 giorni dopo il ritrovamento del cadavere della 21enne e poi, su semplice segnalazione di una compagna delle superiori dell’uomo, la quale ne riconobbe la calligrafia, attribuita a lui. Il testo della missiva parla di morte, di un corpo straziato, di un agnello sacrificale.
Da qui l’inizio di una vicenda giudiziaria dati toni foschi, che portò prima all’arresto di Binda nel 2016, al processo e alla sua condanna all’ergastolo nel 2018 per omicidio volontario aggravato e, infine, all’assoluzione piena a luglio 2019 – dopo 1286 giorni di carcere da innocente – confermata a gennaio 2021 dalla cassazione.
Ma che cosa condusse al madornale errore giudiziario? Bisognava trovare un colpevole a tutti i costi? Bisognava agire in fetta, non c’era più tempo?
Dell’accusato, gli inquirenti tracciarono il profilo di un uomo, fragile, dedito alle droghe, e insieme intelligente, colto, magnetico, capace di ammaliare l’interlocutore. Si focalizzarono sul suo passato per certi versi torbido, convincendosi fosse lui “l’amore impossibile” della ragazza.
Alcune generiche e sconclusionate frasi riferite alla morte e a un assassinio, appuntate su un’agenda e su block notes recuperati in casa sua dagli investigatori, sommate a un alibi poco solido, chiusero il cerchio. Per chi lavorava al caso, era lui il responsabile della violenza sessuale e della morte della giovane donna.
A scagionarlo definitivamente fu la genetica. Anzi, fu Lidia. Il suo corpo, riesumato nel 2017, parlò chiaro: i quattro peli ritrovati sul pube non appartenevano a Binda, così come non vi era corrispondenza tra i resti dei reperti e il Dna dell’uomo, peraltro non risultato presente nemmeno sul tessuto che rivestiva la Fiat Panda, né sulla lettera anonima e sulla busta che la conteneva.
Nel frattempo, si fece anche vivo il vero autore di “In morte di un’amica” (che ha voluto continuare a mantenere l’anonimato), estraneo alla famiglia così come ai fatti, il quale compose quei versi spinto soltanto dal desiderio di rendere omaggio alla giovane selvaggiamente uccisa. A quel punto tutto l’impianto accusatorio crollò. Contro Stefano Binda non vi erano prove.
L’ultimo colpo di scena ha a che vedere con la legittima richiesta di risarcimento allo Stato per i tre anni e mezzo che l’uomo ha ingiustamente trascorso dietro alle sbarre, poco più di 303mila euro riconosciuti dalla Corte d’appello di Milano. Richiesta annullata il 23 giugno 2023 dalla procura del capoluogo lombardo, perché l’uomo, come recita il verdetto, “con i suoi silenzi avrebbe contribuito all’errore sulla sua carcerazione“.
Cala il sipario su Stefano e, con lui, su Lidia. Il primo, oggi 55enne, ora si dedica al sostegno e all’ascolto di chi è in carcere, la seconda giace, ma non in pace.
A violentarla e a mettere fine alla sua vita fu una persona a lei vicina? Fece lei salire a bordo dell’auto il suo assassino quella sera, perché lo conosceva e di lui si fidava? O fu un completo estraneo a straziarla, come il maniaco del parcheggio, mai più identificato? Le ipotesi sono le medesime della partenza. C’è da rifare tutto.
Certo, sulla qualità delle indagini hanno pesato anche le tecniche investigative del tempo, non supportate, all’epoca, dalle tecnologie e dai mezzi oggi normalmente utilizzati dagli inquirenti, in primis dai tabulati telefonici dei cellulari, nonché dalle telecamere di videosorveglianza (il caso Yara Gambirasio insegna). Nessun filmato di Lidia da visionare, né immagini che potessero ricostruire il percorso compiuto dal parcheggio dell’ospedale al bosco.
Un’altra mancanza riguarda, poi, il livello delle conoscenze scientifiche nel 1987. L’esame del Dna ancora non esisteva e, in merito alla raccolta e all’analisi delle prove biologiche, c’è stato uno spreco e, in alcuni casi, il non corretto utilizzo dei reperti relativi all’omicidio.
Ma la verità sa aspettare. Purché la formulazione delle ipotesi che a lei tendono si reggano su prove certe.