I soldi sono soldi per tutti: quando la torta si divide in parti uguali

Stiamo con le brache per terra e loro parlano di aumentare il finanziamento dei partiti. E quando si parla di soldi l’appello non poteva che essere bipartisan e trova tutti d’accordo. Comunque cosi facendo si marca male. Speriamo di non doverci ricredere, dice Pantalone.

Roma – In tempo di magra il finanziamento dei partiti è l’unico legame che unisce tutti. Il Pd interessato al proprio conto corrente in rosso lancia una fiche sul tavolo della politica. Con ben 122 dipendenti, gran parte in cassa integrazione, a cui vanno aggiunti una ventina di funzionari che fino a ottobre scorso lavoravano in distacco presso i ministeri e che adesso sono a carico del partito, la situazione è da allarme rosso. Le ghiottonerie piacciono ai politici, così si cerca di aumentare la spartizione della torta dei finanziamenti del 2xmille dagli attuali 25,1 milioni a quota 45,1 milioni di euro all’anno.

Si parla anche di distribuire il cosiddetto “inoptato”, cioè la quota dell’Irpef di chi non indica alcuna forza politica, così come avviene con l’8xMille alle confessioni religiose. Il raddoppio dei fondi pubblici farebbe comodo, comunque, a quasi tutte le forze politiche. Altro che RdC, qui si parla della sopravvivenza dei partiti per potere finanziare le proprie attività. La proposta è dei dem che nonostante la posta in gioco lambisce l’interesse di Forza Italia che sembra favorevole, mentre ancora FdI, almeno fino ad oggi, non ha manifestato la propria posizione. Grandi manovre, dunque, al Senato per raddoppiare i fondi pubblici per i partiti.

Il ddl è già comunque incardinato in Commissione Affari costituzionali al Senato. Un tema, quello del finanziamento pubblico ai partiti, che in Italia ritorna ciclicamente nel dibattito dell’opinione pubblica. Era infatti il 1974 quando l’allora esponente democristiano Flaminio Piccoli – ministro delle Finanze – vide approvata in Parlamento la legge che portava il suo nome e che istituiva un sostegno economico statale ai gruppi politici. Infatti, dopo anni di scandali che coinvolsero anche alcuni dirigenti nazionali, l’intento era quello di garantire la trasparenza e l’autonomia dei partiti, che non avrebbero più avuto bisogno di ricercare soldi facendo promesse collusive e corruttive.

Un sistema che h retto per circa vent’anni, fino a quando venne travolto dallo scandalo di Tangentopoli e dalle rivelazioni sui rapporti illeciti che quasi tutte le forze politiche avevano stretto con i cosiddetti potentati economici. E così, nel giro di pochi anni, si arrivò all’approvazione della legge numero 157 del 1999, che rivoluzionò buona parte del meccanismo. Il testo aveva autorizzato, a partire da quell’anno, una spesa per lo Stato pari a 257 miliardi di lire all’anno da elargire come contribuzione sotto forma di rimborso delle spese elettorali sostenute da ciascun partito. Da allora l’organo legislativo ha apportato solamente alcune piccole modifiche, fino alla svolta definitiva di dieci anni fa.

Nel 2012 infatti l’Italia, unica tra le democrazie europee, ha eliminato il finanziamento pubblico diretto ai partiti. Con la legge numero 96, approvata su proposta dell’esecutivo guidato dall’allora premier Mario Monti sotto la spinta della crisi economica, veniva modificato il sistema di contribuzione agli schieramenti politici. Da allora le forze politiche, previa iscrizione in un apposito registro, sono destinatarie solo delle somme attribuite dai contribuenti attraverso il due per mille e delle donazioni, entro certi limiti, di persone fisiche e giuridiche, che possono beneficiare della detrazione d’imposta del 52% per importi fino a 5 mila euro, mentre per quelli fino a 20 mila euro la soglia si abbassa al 26 per cento. Ma la tendenza generale a donare i propri soldi è in drastico calo. Nel 2021 solo il 3,28% dei contribuenti ha destinato il due per mille per questo o quel partito. Il perché se lo chiedano i leader che tanto bravi sono soltanto a parole…

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