A tutte le ansie e le paure maturate in questo ventennio si aggiunge anche il “Fernweh” ossia la nostalgia per l’altrove. Potrebbe essere radicata in noi stessi?
La nostalgia dell’altrove. Quante volte ci è capitato di pensare che la vita che si conduce ci sta logorando lentamente e inesorabilmente? Al punto da sentirsi risucchiati totalmente nel suo vortice ed intanto il tempo scorre e non ci lascia scampo. Le proprie passioni accantonate e chiuse in un cassetto, mentre i giorni si replicano sempre identici. La stanchezza cresce e la voglia diminuisce. Resta poco tempo per fare quello che si è sempre desiderato. Con la pandemia, poi, che ci ha travolto come uno tsunami, è aumentata considerevolmente l’ansia, il timore che si è trasformato in terrore, di non potersi muovere con le stesse libertà di prima. In questo fertile terreno ha trovato spazio il “Fernweh”.
Rintanati nelle proprie case, come animali braccati da un nemico minuscolo, invisibile, eppur infido: il maledetto coronavirus. La salute è diventata, giustamente, la preoccupazione principale ed ha, quindi, preso il sopravvento su altri aspetti della vita sociale. Inoltre, insieme alle restrizioni generali, è stata preclusa la possibilità di spostarsi in giro per il mondo. Per questi motivi si è esteso, fino a diventare un trend, quello che i tedeschi definiscono “Fernweh”, vale a dire la nostalgia per posti in cui non si è mai stati. La locuzione è composta da “fern” che significa lontano e “weh” nostalgia.
Letteralmente potrebbe essere tradotta come “nostalgia dell’altrove”, nel senso che si desidera stare da un’altra parte e di scoprire luoghi lontani. In letteratura il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1902 dall’etnologo statunitense Daniel Garrison Brinton, che nel libro: “The Basic of Social Relation” analizzò il radicato desiderio misto al dolore di viaggiare molto simile ad un’inquietudine sentita. Ma è col XX secolo che il termine diviene di uso comune nel lessico tedesco, tanto che le agenzie pubblicitarie hanno iniziato ad utilizzarlo nelle campagne di marketing come invito per le persone a lasciare il proprio nido e volare verso altri lidi.
In Italia qualche buontempone ha confuso il temine col Fernet, quel famoso liquore appartenente alla famiglia degli amari, molto alcolico e dal sapore forte, bevuto sia come aperitivo che come digestivo. Composto da erbe aromatiche quali china, rabarbaro, genziana e simili. Per qualche decennio è stato compagno gradito nelle case degli italiani e protagonista di molti spot pubblicitari. Altro che bevanda, il “Fernweh” può essere considerato un vero e proprio stato d’animo. Se ne può soffrire fino a diventare un malessere, che si manifesta in forma più o meno lieve, in periodo della vita piuttosto che in un altro. Molte persone, vittime di questa sorta di afflizione, utilizzano un metodo che potrebbe essere definito omeopatico, nel senso che viaggiano in continuazione.
Altri, invece, lo praticano mentalmente, facendo galoppare negli spazi infiniti del sogno la fantasia e l’immaginazione, due Signore che aiutano a concepire quei luoghi dove si vorrebbe andare ed esserci, anche se, quasi sicuramente, non saranno mai raggiunti fisicamente. Infine ci sono individui che con questo stato d’animo ci convivono tutta la vita. Spesso con dolore: dev’essere un’immane sofferenza provare quella voglia di stare in un altro posto rispetto a quello dove si trovano in quel preciso momento E’ un tormento infinito, che non lascia tregua. Una profonda inquietudine, sempre spinti a cercare qualcosa di migliore da quello che si ha sotto mano.
Per restare delusi una volta che raggiungono quella città o quel posto. Il tormento ricomincia, perché il disagio è sempre lì, fedele compagno di viaggio. Non li abbandona: non vuole decidere di allontanarsi. Forse perché non dipende dal luogo, ma da sé stessi. Ora, sarebbe consigliabile per buona parte della classe dirigente di questo Paese e dei maitre a penser della carta stampata, di compiere un bel viaggio, ma di sola andata e arrivederci a mai più! Non sono degni del “Fernweh”, in quanto per patirne bisogna avere una sensibilità che essi non posseggono!