Due date estremamente importanti che appaiono sempre più sbiadite nel tempo. Politici e stampa ne parlano ogni anno come di semplici ricorrenze mentre i valori ideali che esse rappresentano sono un preciso monito per i tempi di guerra che stiamo attraversando. Non lasciamo alle passerelle la memoria di migliaia di uomini e donne che sono morti per la libertà.
Roma – Il 25 aprile è il più recente capitolo della storia di noi italiani. Questa data ci indica la fine dell’immane tragedia che è stata la II Guerra Mondiale e sancì in quel lontano ’45 la riunificazione dell’Italia frantumata in Regno del Sud, Repubblica Sociale Italiana, Adriatisches Küstenland (Zona del Litorale Adriatico) con la perdita di alcuni territori.
La resistenza al nazifascismo, attorno alla quale si celebra il 25 aprile 1945, ha trovato alimento a Cefalonia, Brindisi, Montelungo ma anche nella drammatica disfatta sul fronte russo il cui ricordo ci arriva attraverso le parole di tanti autori italiani come Nuto Revelli e Mario Rigoni Stern, e da scritti memoriali di vari protagonisti di quelle tragiche vicende come Ferdinando Pascolo, Piero Fortuna e molti altri.
Per noi rappresenta una ricucitura del tessuto sociale di quella che per certi versi fu una guerra civile e va vista come elemento unificante, al di là delle sterili polemiche che anno dopo anno si ripetono uguali a sé stesse. Il 25 aprile va inteso come festa della riunificazione sotto un’unica bandiera.
Per l’Europa, l’8 e Il 9 maggio 1945 rappresentano la fine della II Guerra Mondiale (questione di fusi orari) ma, per il grande debito di sangue sofferto dall’allora Unione Sovietica, pari a 27 milioni di morti, la data 9 maggio 1945 rappresenta realmente la grande guerra patriottica. E il Reggimento Immortale la descrive correttamente schierando nelle strade le immagini dei caduti e dei combattenti al fine di onorarne il ricordo.
Basti pensare che vengono a pregare a S. Zeno di Montagna, dove è sepolto un soldato sovietico ignoto e a Clauzetto dove è sepolta la Medaglia d’Oro al Valor Militare italiana alla memoria, conferita al comandante Danijl Avdeev, un sovietico che assieme altri 5.000 sovietici partecipò alla resistenza italiana.
Esistono tuttavia tante storie per ogni singolo frammento temporale o, per meglio dire, esistono usi della storia che possono essere i più vari: didattici, ideologici, identitari e sono catalogabili come “usi pubblici” della storia.
Ci sono momenti nelle storie dei popoli nei quali sembra prevalere l’uso pubblico per vari scopi: un popolo che ha perso una guerra (italiani nel secondo conflitto, tedeschi nelle due guerre, i palestinesi dopo la seconda guerra mondiale…) e la disgregazione dell’Unione Sovietica in ultimo. L’uso pubblico ha lo scopo di caratterizzare il passaggio tra un regime ad un altro o alla democrazia, ma quale? Liberale, Popolare o Postcoloniale?
Legati all’uso pubblico della storia ci sono due problemi, oggi molto attuali, e connessi tra loro: il tema dell’identità e quello della memoria. Entrambi apparentemente legittimi, presentano aspetti, diciamo così, per semplificare, positivi e contraddittori.
Una certa identità è un tratto (per quanto spesso indefinibile con precisione) di una comunità politica in un dato luogo e in dato tempo, che permette ai componenti della comunità di riconoscersi come tali. Ecco che allora le si riscopre, come se fossero un elemento naturale, come se facessero parte del DNA di un popolo e non fossero esse stesse prodotto del nostro passato, e le si usa in molti casi “contro“. L’uso identitario della storia è perciò in grado di creare nemici ovunque.
Gli elementi identitari di piccole comunità o di intere nazioni, in quanto tali sono consolanti – forse se ne ha bisogno, in certi momenti – ma sono anche pericolosi nella misura in cui vengono utilizzati per escludere – pacificamente o meno – gli altri, in una dinamica “noi” – “loro” che esiste da quando esiste l’uomo.
E qui il pensiero va ai nazionalisti ucraini nei confronti dei russofoni in uno stato chiamato Ucraina che è di fatto un agglomerato artificioso voluto da Lenin e dall’ucraino Nikita Sergeevič Chruščëv, l’allora segretario Generale dell’URSS.
Per meglio dire sono esistite diverse proto-ucraine: quella “filo-zarista” (armata bianca) e quella “sovietica“(armata rossa), quella “filo-nazista” e quella “filo-sovietica“. E qui nasce la questione del riportare agli Altari in Ucraina dei veri e propri conniventi con il nazismo, artefici per altro dello sterminio di 80.000 polacchi , di 35.000 ebrei in un paio di giorni e via dicendo.
Questo non ha nulla a che vedere con “l’eroica” – si fa per dire – resistenza nella fabbrica di Azovstal. C’è resistenza e resistenza. Resistenza è un termine vago perché si potrebbe accoppiare a quei disperati della Hitlerjugend che nella Berlino del ’45 “resistevano” all’avanzata delle truppe sovietiche. Certo, erano resistenti fino all’ultimo uomo.
Una parte della comunità politica fa evidentemente un po’ di confusione e, nell’ambito ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia – mi fa specie che Carlo Smuraglia, che ho avuto occasione di ospitare all’Università di Udine per un dibattito sul confine orientale dell’Italia (per la storia, i titini – partigiani del Maresciallo Tito – volevano arrivare al Tagliamento, alla Venecia), abbia “capovolto” il significato di resistenza, come ha fatto anche Enrico Letta e molti altri.
Quando attribuiamo il titolo di resistenti al battaglione Azov dobbiamo dire da che parte stanno in termini di valori. Sono opposti a quelli rimarcati nel 33° Congresso Internazionale UNESCO nel 2013, ossia a valori etici, non nazionalisti, razzisti. Non dimentichiamo perciò i fatti del Donbass ove un nostro connazionale è stato eliminato in quanto documentarista e fotografo. Mi riferisco ad Andrea Rocchelli che era andato testimoniare quel che succedeva da quelle parti. Di questo fatto i mass-media ne hanno parlato poco.
Non vanno neppure dimenticate le Risoluzioni dell’O.N.U. che stigmatizzano che il neonazismo è qualcosa di più della glorificazione di un movimento del passato: è un fenomeno contemporaneo…I movimenti neonazisti e altri analoghi alimentano le attuali forme di razzismo, discriminazione razziale, antisemitismo, islamofobia, cristianofobia e la relativa intolleranza. Ne cito una, la Risoluzione dell’Assemblea Generale dell’O.N.U. A/RES/69/160:
“…The O.N.U. combating glorification of Nazism, neo-Nazism and other practices that contribute to fuelling contemporary forms of racism, racial discrimination, xenophobia and related intolerance…” – L’O.N.U. combatte la glorificazione del nazismo, del neonazismo e di altre pratiche che contribuiscono ad alimentare forme contemporanee di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza.
I media occidentali non ne fanno menzione, ma visto che il clima è sempre più teso, ci sembra giusto riportare fatti avvenuti poco tempo fa, prima “dell’operazione militare speciale” o “conflitto” che dir si voglia. Il 18 novembre 2021 la Terza Commissione dell’ONU ha approvato una risoluzione che vieta la glorificazione del nazismo con 125 voti a favore, 53 astenuti (tra cui l’Italia e vari Paesi europei aderenti alla NATO), con il voto contrario di Stati Uniti e Ucraina. In questo quadro, sono maturati gli attuali eventi?
Se ragioniamo in termini strategici ed economici è evidente che un’Europa industrializzata ha bisogno di materie prime ed è anche vero che la Federazione Russa – che conta oramai solo 140 milioni di abitanti e ha necessità di ammodernamento, con risorse energetiche in abbondanza – possono, anzi, devono trovare una convivenza pacifica e la stavano trovando. Perché allora succede tutto ciò? Qual è la lunga mano che si oppone alla pacifica convivenza? Sgretolare l’Europa a chi giova? La risposta, gentile lettori, la lascio a voi.
La foto di copertina è tratta da planet360.info