Verità negate: la lotta per la giustizia di Olimpia Fuina Orioli

Dopo anni di silenzi e archiviazioni, la madre di Luca Orioli chiede l’avocazione delle indagini. Nuove prove e testimonianze riaccendono la speranza di far luce su una tragedia zeppa di punti oscuri.

Policoro – Il 23 marzo 1988, in una villetta di via Puglia 75 a Policoro, vengono rinvenuti i corpi senza vita di due ventunenni: Luca Orioli e Marirosa Andreotta. Da allora, per 37 lunghi anni, la madre di Luca, Olimpia Fuina Orioli, combatte una battaglia solitaria per ottenere verità e giustizia su quella che per la donna è stato un omicidio, non un tragico incidente, come inizialmente stabilito dagli inquirenti.

La notte in cui tutto cambia

La ricostruzione ufficiale racconta che Nina Giannotti, madre di Marirosa, rientra a casa intorno alle 24:00 da un’uscita parrocchiale a Potenza. Trova la porta socchiusa e, salendo al piano superiore, fa una drammatica scoperta. Nel bagno rinviene il corpo senza vita di Luca, supino sul pavimento con i pugni serrati, Marirosa nella vasca ricolma d’acqua con una gamba poggiata sul bordo.

Luca e Marirosa, ai tempi della loro relazione

La donna compie due gesti che si riveleranno cruciali per le successive indagini: fa defluire l’acqua dalla vasca e copre le parti intime di Luca con i pantaloni trovati per terra. Appaiono subito evidenti una ferita di circa 12 cm alla nuca di Marirosa e un vistoso gonfiore ai testicoli del ragazzo.

Le prime contraddizioni

Già dalle prime ore successive ai tragici fatti emergono elementi discordanti. Nina Giannotti nota “molte orme in casa, già asciutte, che dal bagno portavano all’ingresso dell’abitazione”. Sull’orario di arrivo dei Carabinieri esistono versioni contrastanti: secondo una versione arrivano alle 01.30-02.00, secondo un’altra, riferita dal fotografo Cerabona, alle 23.00, addirittura prima del rinvenimento dei corpi.

Olimpia Fuina Orioli

Il vice pretore Ferdinando Izzo, contrariamente alla prassi, non appone sigilli, non dispone sequestri né autopsia, partecipa soltanto al riconoscimento cadaverico. Nel fonogramma alla Procura scrive laconicamente: “Morte certa per folgorazione”. Nessun reato, dunque, ma un semplice incidente.

La prima svolta: il giudice Salvatore

Il 23 gennaio 1989, il giudice istruttore Michele Salvatore respinge la richiesta di archiviazione del PM, scrivendo che “appare quantomeno strano che un elettrodomestico progettato e concepito proprio per fornire prestazioni in ambiente pregno di umidità possa originare fenomeni di tal fatta”. Ordina accertamenti più approfonditi.

Viene conferito incarico di perizia all’ing. Sante Valecce, che accerta come il termoconvertitore funzionasse correttamente e che la manopola oraria segnava l’accensione alle 23.30, quando i ragazzi erano già morti. Tuttavia, Valecce introduce un elemento di novità, sostenendo che la causa della morte sarebbe un interruttore disattivato che avrebbe provocato una scossa elettrica.

Il falso in perizia

Nel 1996 si apre un procedimento per falso in perizia contro Valecce. I carabinieri accertano che il perito ha “corredato la perizia con 18 fotografie, mentre lo scontrino fiscale riporta 19 fotografie” e ha “alterato la sequenza originaria delle fotografie attraverso la fotocomposizione di nuovi e diversi negativi”. Il procedimento viene dichiarato estinto per prescrizione.

La riapertura del 1993

L’arrivo del nuovo Comandante della Compagnia, il capitano Salvino Paternò, segna una svolta. Paternò si accorge delle anomalie nelle foto della presa elettrica e richiede i negativi, scoprendo che presentano un bordino non presente sulle altre foto. Le immagini agli atti non corrispondono a quelle effettivamente scattate da Cerabona.

Luca Orioli

Il PM conferisce una nuova consulenza “per tabulas” al dottor Spada, che però conclude per morte da inalazione di monossido di carbonio, ipotesi che appare “completamente avulsa dalla scena del delitto” considerando che il bagno era areato.

La perizia Umani Ronchi: finalmente la verità?

Con l’avocazione delle indagini del 1994, viene incaricata una nuova équipe guidata dal prof. Umani Ronchi e viene disposta la riesumazione dei corpi. Per la prima volta, dopo sei anni, si procede per omicidio.

Il medico legale, esaminati i corpi, conclude per “morte violenta”, escludendo sia la folgorazione che l’avvelenamento da monossido. Luca e Marirosa sono morti per annegamento o strangolamento, presentando chiari segni di violenza e il caratteristico “fungo schiumoso” da annegamento. La ferita di Marirosa non poteva essere attribuita a una caduta nella vasca da bagno, né risultava compatibile con un ipotetico urto contro la rubinetteria.

Nonostante queste conclusioni, il PM richiede nuovamente l’archiviazione, che viene concessa dal GIP.

Il coinvolgimento della mafia lucana

Nel 2004, Luigi De Magistris, nell’ambito dell’indagine “Toghe lucane”, si riferisce per la prima volta ufficialmente al “duplice omicidio dei fidanzatini di Policoro”. Il boss pentito Salvatore Scarcia racconta di aver assistito a un incontro d’affari dove era presente Walter Mazziotta, amico di Luca, insieme al Pubblico Ministero che aveva archiviato il caso.

Luigi De Magistris

Anche la nota trasmissione televisiva “Chi l’ha visto?” si occupò della tragica vicenda dei due ragazzi, portando all’attenzione del pubblico un super testimone: il fotografo Cerabona. L’uomo dichiarò che la sera del 23 marzo 1988, dopo essere stato prelevato dai Carabinieri di Montalbano Jonico, giunse presso la villetta di via Puglia alle ore 23.00, insieme al collega Orlando. Cerabona affermò di aver scattato fotografie in una scena del crimine completamente diversa da quella ufficialmente nota, disconoscendo la paternità delle immagini inserite nel fascicolo giudiziario.

Questo elemento si rivelò cruciale per le indagini, poiché dimostrava che la scena del crimine era stata alterata e che le fotografie ne costituivano la prova. Nel frattempo, il capitano Paternò, che aveva già condotto indagini rilevanti, ascoltò la testimonianza di un collaboratore di giustizia, legato alla mafia operante a Tursi. Quest’ultimo raccontò che, durante la sua detenzione, aveva affidato la propria compagna al clan affinché la proteggesse ma una volta scarcerato, scoprì che la donna era stata più volte abusata dagli stessi membri del sodalizio.

Questi ultimi l’avevano costretta, in cambio di cocaina, a partecipare a orge e “coca-party” organizzati all’interno di un villaggio turistico di Policoro. Secondo il collaboratore, a questi festini avrebbero partecipato professionisti, avvocati, magistrati e imprenditori. Gli uomini del clan non vi avrebbero preso parte si sarebbero occupati della logistica e delle videoregistrazioni. Ma c’è di più.

I carabinieri, guidati dal capitano Paternò, iniziarono così a collegare queste rivelazioni alla lettera che la giovane Marirosa aveva scritto a Luca, in cui faceva riferimento a segreti così gravi da temere potessero compromettere la loro relazione. Scriveva: «Amore mio, spero che resterai accanto a me, anche quando ti confesserò una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre».

Luca Orioli

Le indagini portarono poi all’identificazione del villaggio turistico in questione e all’audizione, come persona informata sui fatti, del custode-portinaio, che confermò il frequente andirivieni di auto di grossa cilindrata e la presenza di uomini eleganti accompagnati da ragazze molto giovani.

Walter Mazziotta: l’amico sospetto

Un ruolo centrale nelle indagini lo assunse quindi Walter Mazziotta, il migliore amico di Luca. Le sue dichiarazioni risultarono contraddittorie fin dall’inizio: dichiarò di essere andato a cercare Luca verso le 20.30 ma la madre di Luca lo ricordava alle 21.30. Affermò inoltre di essere in compagnia di un certo Micucci, che però negò di essere stato con lui. Mazziotta venne visto allontanarsi con una Fiat Panda verde dalla villetta degli Andreotta.

Una testimone, Clementina Ancona, dichiarò di aver visto un’auto scura allontanarsi dal recinto di casa Andreotta alle 21.30, guidata da qualcuno con una giacca chiara. Particolarmente inquietante risultò il comportamento di Mazziotta nei giorni successivi: si recava spesso a casa degli Andreotta chiedendo insistentemente delle foto di Marirosa e Luca in cambio di un’agenda della ragazza, salvo poi scoprire che nessuno gli aveva mai conferito tale incarico.

Nel 2010 vennero riesumati e riesaminati i corpi dei due ragazzi, anche grazie all’intervento dei consulenti della famiglia di Olimpia Orioli, tra cui il professor Cosimo Lorè, docente dell’Università di Siena, e il dottor Domenico Mastrangelo, medico chirurgo e responsabile del laboratorio Crisato. Attraverso nuovi accertamenti, questi specialisti dimostrarono l’infondatezza delle conclusioni precedentemente espresse da Francesco Introna, le quali risultavano non coerenti con i risultati degli esami sui tessuti e con le analisi del professor Umani Ronchi. Quest’ultimo, infatti, aveva scientificamente provato che la morte dei due giovani era da attribuirsi a un’azione violenta compiuta da terzi.

Nonostante ciò, la tesi di Introna continuò a influenzare, almeno in parte, la decisione di procedere a una nuova archiviazione del caso.

Il ruolo di Tonino Pascale e le incongruenze

Anche la figura di Antonio “Tonino” Pascale, fidanzato e poi marito di Chiara Paltrinieri, sorella di Laura (prima persona chiamata dalla Giannotti e la prima a entrare nell’appartamento dopo il rinvenimento dei corpi), risultò problematica. Pascale dichiarò di aver telefonato la mattina del 24 marzo a casa Mazziotta per comunicare la notizia della morte. Qualche anno dopo, Giampaolo, il fratello di Walter, durante una telefonata – intercettata dai carabinieri – intercorsa con Raffaella Parente, mamma di Marco Vitale, smentì categoricamente: “No, dopo, dopo. Pascale non ha chiamato, è venuto a casa”.

I carabinieri definirono Pascale “un soggetto che è riuscito a defilarsi nel corso della pressante attività operativa” e segnalarono che “più fonti confidenziali degne di fede hanno indicato il Pascale coinvolto nell’evento delittuoso quale complice del Mazziotta”.

Il rigetto del 2025 e l’istanza di avocazione

Nel maggio 2025, la Procura di Matera ha rigettato l’ennesima richiesta di riapertura delle indagini presentata dall’avvocato Antonio Fiumefreddo per conto di Olimpia Fuina Orioli, madre di Luca. Il Pm Maria Cristina De Tommasi ha motivato il rigetto sostenendo che i temi introdotti sono già stati “ampiamente vagliati” e rappresentano “mere censure” dei precedenti provvedimenti di archiviazione.

L’avvocato Fiumefreddo e Olimpia Fuina Orioli

Secondo l’avvocato Fiumefreddo, però, il rigetto presenta diverse lacune: “Avevo chiesto di accertare finalità e contesto del falso in perizia Valecce ma ci si limita a dire che si tratta di un reato prescritto… Per quanto attiene la richiesta di escussione del fotografo Salvatore Cerabona nel merito di manipolazioni della scena del crimine, non ho ricevuto alcuna menzione”.

La battaglia di Olimpia Fuina Orioli

Olimpia Fuina Orioli, oggi 84enne, non si è mai arresa. Dopo il rigetto, ha presentato istanza di avocazione delle indagini alla Procura Generale di Potenza ai sensi dell’articolo 412 del codice di procedura penale.

“Ho vissuto questi lunghi anni di luce nera nel silenzio istituzionale più avvilente – dichiara con commozione – Dopo aver subìto la morte di mio figlio tra intrighi, menzogne, omissioni, depistaggi, perizie falsificate, autopsie pilotate… Lo Stato era ed è ancora impassibilmente sordo, cieco e muto dinanzi ad un tale squallido raggiro”.

Le nuove richieste investigative

Nell’istanza di avocazione, la difesa chiede numerosi accertamenti mai effettuati in 37 anni. Tra le richieste principali vi è la verifica dell’orario di intervento dei carabinieri, poiché esistono verbali contraddittori sull’arrivo delle forze dell’ordine. Si chiede inoltre l’escussione dei testimoni sulle luci accese e spente per chiarire l’orario effettivo della morte, l’audizione dei fotografi Orlando e Cerabona per fare luce sulla manipolazione della scena del crimine e l’acquisizione dei tabulati telefonici per verificare gli alibi di Mazziotta e altri soggetti coinvolti.

La difesa sollecita anche una nuova riesumazione dei corpi utilizzando moderne tecniche come il body scan, oltre a una perizia sulle fotografie per accertare eventuali manipolazioni delle immagini. Particolare attenzione viene rivolta all’intercettazione telefonica tra Raffaella Parente, madre di Marco Vitale, e Giampaolo Mazziotta, nella quale la donna fa espliciti riferimenti alla mafia e a Luca come “innocente”.

Un caso che ha segnato un’epoca

Il caso dei “fidanzatini di Policoro” ha attraversato decenni, coinvolgendo numerosi magistrati, consulenti e investigatori. È stato definito dal compianto criminologo Francesco Bruno come un esempio di come “una falsa ma apparentemente plausibile interpretazione dei fatti ha preso il posto della verità, fino a nasconderne l’evidenza, fuorviando finanche il giudizio di quattro diverse consulenze tecniche”.

Francesco Bruno

Bruno sottolineava che già al momento della scoperta dei corpi “non era lecito per nessuno, soprattutto se medico, immaginare cause di morte diverse da quella violenta per annegamento, che appariva in modo assolutamente evidente per la presenza, sui due cadaveri, di un tipico fungo schiumoso da annegamento”.

L’ultima speranza di giustizia

Oggi, a 37 anni di distanza, la madre di Luca continua la sua battaglia per la verità, sperando che la Procura Generale di Potenza possa finalmente fare luce su una delle pagine più controverse della cronaca nera lucana. L’istanza di avocazione rappresenta forse l’ultima chance per riaprire un caso che, secondo molti osservatori, non è mai stato davvero indagato fino in fondo.

Nel documento presentato alla Procura Generale, l’avvocato Fiumefreddo denuncia come “negare la riapertura in presenza di fatti potenzialmente idonei a configurare un delitto plurimo di omicidio volontario configura un vulnus ai diritti fondamentali dei familiari delle vittime”. Si richiama la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che impone che ogni morte sospetta sia oggetto di un’indagine effettiva, indipendente e seria.

La Procura Generale di Potenza dovrà ora valutare se sussistano i presupposti per l’avocazione delle indagini, sottraendo il caso alla competenza della Procura di Matera e assumendosene la direzione diretta. Una decisione che potrebbe finalmente restituire dignità a due giovani vite spezzate e a una madre che da quasi quattro decenni cerca solo la verità.

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