Ustica: 45 anni di verità negata

Il 27 giugno 1980, 81 persone persero la vita nel cielo del Tirreno in quello che sarebbe diventato il più grande depistaggio della storia italiana e uno dei misteri più oscuri della Guerra Fredda.

Ustica – Era il 27 giugno 1980, un venerdì sera di fine giugno. L’Italia si preparava all’estate, alle vacanze, ai viaggi verso il Sud. All’aeroporto Guglielmo Marconi di Bologna, il volo IH870 dell’Itavia si preparava al decollo con due ore di ritardo. Il DC-9 I-TIGI, un aereo di linea di 13 anni, era carico di passeggeri diretti in Sicilia per le vacanze.

A bordo c’erano 81 persone: 64 adulti, 11 bambini tra i due e i dodici anni, due neonati sotto i 24 mesi e quattro membri dell’equipaggio. Famiglie intere, uomini d’affari, giovani coppie, bambini in trepidazione per il viaggio. Nessuno di loro sapeva che stava per diventare protagonista di uno dei più grandi misteri della storia italiana.

Alle 20:08, con due ore di ritardo, il DC-9 decollò finalmente da Bologna in direzione Palermo. L’atterraggio era previsto per le 21:13. Tutto sembrava normale: un volo di routine su una rotta battuta migliaia di volte.

Il mistero

Alle 20:58, si registrò l’ultimo contatto radio tra il velivolo e Roma Controllo. Il pilota, Marco Gualandi, confermò la rotta e l’altitudine. Tutto regolare. Sei minuti dopo, alle 21:04, quando Roma Controllo chiamò il DC-9 per autorizzare l’inizio della fase di atterraggio su Palermo, non arrivò alcuna risposta.

I resti del velivolo

Il silenzio radio fu totale, improvviso, inspiegabile. Il velivolo era semplicemente sparito dai radar, inghiottito dal buio del Tirreno. Iniziarono le ricerche affannose ma già quella sera emersero i primi elementi inquietanti.

Dalle comunicazioni radio – che sarebbero state analizzate solo molto tempo dopo, durante le inchieste – si apprese che “il personale di Roma aveva sentito traffico americano in quella zona”. Nel 2017, Brian Sandlin, all’epoca marinaio statunitense sulla portaerei Saratoga, raccontò che la sera del 27 giugno 1980 assistette al rientro di due aerei disarmati “che sarebbero serviti ad abbattere due MiG libici in volo lungo la traiettoria del DC-9” nel corso di un’operazione NATO.

Il contesto geopolitico: il Mediterraneo teatro di Guerra Fredda

Per comprendere davvero la tragedia di Ustica, bisogna inquadrarla nel contesto geopolitico dell’epoca. Il 1980 fu un anno cruciale per gli equilibri mediterranei. La Guerra Fredda aveva spostato il suo baricentro verso sud e il Mediterraneo era diventato un teatro di scontro tra superpotenze.

All’epoca di Ustica, rischi di instabilità attraversavano ognuna delle regioni mediterranee. La nuova centralità strategica dell’area era confermata dalla notevole presenza militare delle superpotenze nelle sue acque. Già dalla metà degli anni Settanta, gli USA erano diventati la potenza dominante nel Mediterraneo orientale, mentre l’URSS manteneva una forte influenza su Libia e Siria.

Al centro di questo equilibrio precario c’era la Libia di Muammar Gheddafi, diventata uno dei principali alleati sovietici nel Mediterraneo. Il governo italiano, fortemente debitore verso il governo libico dal punto di vista economico (dal 1º dicembre 1976 addirittura la FIAT era parzialmente in mani libiche, con una quota azionaria del 13% detenuta dalla finanziaria libica LAFICO), tollerava gli attraversamenti aerei libici e li mascherava con piani di volo autorizzati per non impensierire gli USA.

Gli aerei libici spesso si mimetizzavano nella rete radar, disponendosi in coda al traffico aereo civile italiano, riuscendo così a evitare di allertare le difese americane. Era un gioco pericoloso, una guerra nell’ombra che si combatteva nei cieli del Mediterraneo.

L’inizio del depistaggio: la “tragica ovvietà”

Il mattino del 28 giugno 1980, tutti i giornali italiani riportarono la notizia della tragedia. Ma già dalle prime ore si manifestò quello che sarebbe diventato il più grande depistaggio della storia italiana. Invece di approfondire l’elemento del “traffico americano” emerso dalle comunicazioni radio, le autorità scelsero la strada apparentemente più semplice: l’ipotesi del cedimento strutturale.

L’Aeronautica Militare italiana si mostrò particolarmente attiva nel sostenere questa versione. Era la “tragica ovvietà” che purtroppo gli aerei cadono, una spiegazione rassicurante che non metteva in discussione equilibri geopolitici delicati. Una tesi che fu presto smentita dalla stessa Commissione ministeriale ma che riuscì nell’intento principale: gettare ombre sulla compagnia Itavia e sui suoi standard di manutenzione.

Il sospetto che si diffuse sulla cattiva manutenzione del DC-9 portò, nel gennaio 1981, alla chiusura e al successivo fallimento della compagnia Itavia. Era il primo, macroscopico risultato del depistaggio: distruggere la reputazione di chi poteva aver visto o saputo qualcosa.

Sei anni di silenzio: quando la verità sembrava sepolta

Dal 1981 al 1986, sulla vicenda di Ustica calò un silenzio quasi assoluto. Le indagini, avviate dalle Procure di Palermo e Roma e dal Ministero dei Trasporti, persero gradualmente di vigore. Sembrava che la “tragica ovvietà” dovesse bastare a spiegare la morte di 81 persone.

Una delle vittime della strage di Ustica

Ma il silenzio non era casuale. Era il risultato di una strategia precisa, orchestrata a vari livelli per mantenere segreto quello che era realmente accaduto quella sera nei cieli del Tirreno. Come avrebbe poi dichiarato Daria Bonfietti, sorella di una delle vittime: “Appariva sempre più chiaro che coloro che lottavano contro la verità esistevano, erano esistiti sin dagli istanti successivi al disastro e operavano a vari livelli nelle nostre istituzioni democratiche per tenere lontana, consapevolmente, la verità”.

Il risveglio: quando il giornalismo sfidò il potere

Nel 1986, tutto cambiò. Un’inchiesta giornalistica riaccese i riflettori sul caso, ipotizzando per la prima volta pubblicamente che il DC-9 fosse stato vittima di un’azione militare. Non era più la “tragica ovvietà” di un incidente: era l’ipotesi di un abbattimento deliberato.

L’impatto fu devastante per chi aveva costruito il castello di carte del depistaggio. L’ipotesi scatenò un appello al Presidente della Repubblica da parte di un gruppo di politici e intellettuali, che chiedevano di fare chiarezza su “qualsiasi dubbio anche minimo sull’eventualità di un’azione militare lesiva di vite umane e di interessi pubblici primari”.

La nascita dell’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica

Nel 1988, dalla determinazione di Daria Bonfietti, sorella di Sabina, una delle vittime, nacque l’Associazione parenti delle vittime della strage di Ustica. Non era solo un’associazione: era un movimento civile che sfidava il potere dello Stato e le sue menzogne.

Daria Bonfietti divenne il volto pubblico di una battaglia che andava ben oltre il dolore personale. La sua determinazione, la sua lucidità, la sua capacità di tenere viva l’attenzione pubblica trasformarono Ustica da caso chiuso a simbolo nazionale della lotta per la verità.

Da anni l’associazione è in prima linea per la verità

L’associazione riuscì a mobilitare l’opinione pubblica, scossa da una mancata verità che assumeva la dimensione dello scandalo. E l’opinione pubblica, in molti modi, fece sentire la sua pressione.

Le operazioni di recupero: tecnologia al servizio della verità

La pressione dell’opinione pubblica portò a una decisione senza precedenti: recuperare il relitto del DC-9 dal fondo del Tirreno. Due complesse campagne di recupero, nel 1987 e nel 1991, rappresentarono un capolavoro tecnologico e logistico.

A 3.700 metri di profondità, in condizioni estremamente difficili, i sommozzatori e i robot sottomarini riuscirono ad acquisire il 96% del relitto del DC-9. Era un’operazione che all’epoca rappresentava un record mondiale ma era soprattutto la prova tangibile che quando c’è la volontà politica, la tecnologia può servire la giustizia.

Il relitto, una volta ricomposto, raccontò una storia diversa da quella del cedimento strutturale. I segni sui frammenti, la distribuzione dei danni, la natura delle fratture: tutto indicava un’esplosione esterna, non interna. Tutto indicava che ad abbattere il velivolo fosse stato un missile.

Le commissioni parlamentari: quando il Parlamento indaga lo Stato

Dal 1989, la Commissione parlamentare Stragi presieduta dal senatore Libero Gualtieri iniziò un’indagine sistematica e approfondita sulla vicenda. I risultati furono sconcertanti e rivelarono l’esistenza di un sistema di occultamento che coinvolgeva i vertici dello Stato.

La Commissione riuscì a dimostrare l’esistenza di comportamenti di militari italiani in servizio presso alcuni centri radar volti a occultare ciò che era realmente accaduto quella sera nei cieli del Tirreno. Non erano errori o negligenze: erano atti deliberati di depistaggio.

Emersero falsificazioni di documenti, manomissioni di nastri radar, testimonianze false rese sotto giuramento. La Commissione Stragi riuscì a mappare una rete di complicità che andava dai centri radar alle sale operative, dai comandi militari ai vertici dell’Aeronautica.

L’incriminazione per alto tradimento: un fatto senza precedenti

Nel 1992 accadde un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica italiana: i vertici dell’Aeronautica Militare dell’epoca furono incriminati per alto tradimento. L’accusa era pesantissima e senza appello: “Dopo aver omesso di riferire alle Autorità politiche e a quella giudiziaria le informazioni concernenti la possibile presenza di traffico militare, l’ipotesi di una esplosione coinvolgente il velivolo e i risultati dei tracciati radar, abusando del proprio ufficio, fornivano alle Autorità politiche informazioni errate”.

Alto tradimento: il reato più grave previsto dal codice penale per i militari. Un’accusa che significava aver tradito non solo il giuramento alle istituzioni ma aver messo a rischio la sicurezza nazionale pur di coprire la verità su Ustica.

Gli imputati furono poi prosciolti per prescrizione nel 2004 e assolti dalla Cassazione nel 2006. Ma l’accusa di alto tradimento rimase nella storia come il riconoscimento ufficiale che i vertici militari italiani avessero deliberatamente ingannato lo Stato e i cittadini.

La sentenza Priore

Nel 1999, dopo quella che resta la più lunga e travagliata istruttoria della storia giudiziaria italiana, arrivò la sentenza che cambiò per sempre la narrazione ufficiale di Ustica. Il giudice Rosario Priore, al termine di un’indagine durata anni e costata milioni di euro, stabilì con certezza che “l’incidente al DC9 era occorso a seguito di azione militare di intercettamento”.

Il DC-9 dell’Itavia era stato coinvolto in un’operazione militare nel corso della quale un missile ne aveva causato la caduta. Tutte le altre ipotesi – dal cedimento strutturale alla bomba a bordo – si rivelarono tentativi di depistaggio, volti a sviare tanto le indagini quanto la consapevolezza dell’opinione pubblica.

La sentenza Priore non si limitò a stabilire la causa dell’abbattimento: ricostruì l’intera rete di depistaggi, le falsificazioni e le omissioni. Dimostrò che fin dal primo momento esisteva un piano preciso per nascondere la verità, un piano che coinvolgeva i vertici militari e che aveva radici in interessi geopolitici che andavano ben oltre i confini italiani.

Le ipotesi geopolitiche: Francia, Libia e il missile destinato a Gheddafi

Negli anni successivi alla sentenza Priore, sono emerse diverse ipotesi sui mandanti dell’operazione che portò all’abbattimento del DC-9. La più accreditata, sostenuta anche da figure istituzionali di primo piano, chiama in causa la Francia.

L’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato ha dichiarato che la strage di Ustica fu causata da un missile francese destinato a Gheddafi, sostenendo che il leader libico riuscì a sfuggire all’attentato perché avvertito da Bettino Craxi. Secondo questa ricostruzione, il DC-9 civile sarebbe stato colpito per errore da un missile destinato all’aereo su cui viaggiava Gheddafi.

Giuliano Amato

La testimonianza di Amato, per quanto autorevole, è stata contestata da altri protagonisti dell’epoca. Anche Cesare Romiti, all’epoca amministratore delegato FIAT, rivelò di aver temuto fin da subito che fosse stato “un missile, uno sconfinamento, una battaglia segreta nei cieli, l’arma che parte e colpisce l’aereo civile”.

La pista francese si inquadra nel contesto delle tensioni tra Francia e Libia nell’Africa subsahariana. I due Paesi si contendevano sfere di influenza e va inquadrata nei rapporti sempre più tesi tra Parigi e Tripoli per il controllo delle risorse energetiche africane.

Le testimonianze militari

Negli anni sono emerse testimonianze di militari che quella sera erano in servizio nel Mediterraneo. Nel 2017, Brian Sandlin, all’epoca marinaio statunitense sulla portaerei Saratoga, raccontò di aver assistito al rientro di due aerei disarmati “che sarebbero serviti ad abbattere due MiG libici in volo lungo la traiettoria del DC-9” nel corso di un’operazione NATO affiancata da una portaerei britannica e una francese.

La testimonianza di Sandlin è particolarmente significativa perché conferma la presenza di una complessa operazione militare internazionale nei cieli del Tirreno quella sera. Non era un’operazione improvvisata o accidentale: era un’azione pianificata che coinvolgeva più nazioni della NATO.

Le verità processuali: quando la giustizia civile supera quella penale

Mentre la giustizia penale si arenava tra prescrizioni e assoluzioni, la giustizia civile iniziò a riconoscere le responsabilità dello Stato italiano. Nel 2011, il Tribunale di Palermo condannò lo Stato al risarcimento di oltre 100 milioni di euro ai parenti delle vittime.

La sentenza civile non si limitò al risarcimento: stabilì definitivamente che “ad abbattere il DC-9 fu un missile e che il depistaggio delle indagini sul disastro deve considerarsi definitivamente accertato”. La Suprema Corte confermò questa sentenza, rendendo la verità sull’abbattimento del DC-9 una verità giudiziaria consolidata.

I segreti che resistono: le rogatorie internazionali

Nonostante le certezze giudiziarie, molti aspetti della vicenda restano avvolti nel mistero. Il ministero della Giustizia ha inoltrato rogatorie internazionali negli Stati Uniti, Francia, Belgio e Germania ma le risposte sono state parziali o, in alcuni casi, completamente ignorate.

Gli Stati Uniti hanno fornito alcune informazioni, ma poche e frammentarie. La Francia ha risposto in modo evasivo. Altri Paesi hanno semplicemente ignorato le richieste italiane. È il segno che la verità completa su Ustica tocca interessi che vanno ben oltre i confini nazionali e che alcune verità sono considerate ancora oggi troppo pericolose per essere rivelate.

Il Mig libico: l’altro aereo abbattuto

Una delle ipotesi più accreditate è che quella sera, insieme al DC-9, sia stato abbattuto anche un MiG-21 libico. Secondo alcune ricostruzioni, il caccia libico trasportava una barra di uranio nascosta in una valigia, forse destinata al programma nucleare di Gheddafi.

Il MiG sarebbe stato l’obiettivo primario dell’operazione militare, mentre il DC-9 sarebbe stato colpito per errore o perché troppo vicino al teatro delle operazioni. Questa ipotesi spiegherebbe perché il depistaggio sia stato così determinato e pervasivo: non si trattava solo di nascondere un errore ma di coprire un’operazione di intelligence internazionale.

La resistenza della verità: chi depista ancora oggi

La versione ufficiale della NATO e dell’aeronautica italiana è trincerata da 45 anni in una tripla negazione: il 27 giugno 1980 e nei giorni precedenti non ci sarebbe stata nessuna esercitazione aeronavale; nell’ora del disastro di Ustica non avrebbe volato nessun caccia in assetto da combattimento; dunque nessuna battaglia aerea può aver coinvolto il DC-9.

Questa tripla negazione resiste ancora oggi, nonostante le sentenze, le testimonianze e le prove tecniche. È il segno che alcune verità sono considerate ancora troppo pericolose per essere ammesse ufficialmente.

Quarantacinque anni dopo, la strage di Ustica rimane una ferita aperta nella coscienza nazionale. I responsabili materiali non sono mai stati identificati e processati. Le circostanze esatte dell’abbattimento restano avvolte nel mistero. I mandanti dell’operazione non sono mai stati chiamati a rispondere delle loro azioni.

Nel cielo del Tirreno, quella sera del 27 giugno 1980, non si spezzarono solo 81 vite. Si incrinò anche la fiducia di un popolo nelle proprie istituzioni. Si rivelò la fragilità della democrazia di fronte a interessi che la trascendono.

Nel museo della memoria di Ustica, a Bologna, i resti del DC-9 sono esposti come un monumento alla verità negata. Ogni pezzo di lamiera, ogni frammento racconta una storia di menzogne e di coraggio, di potere e di resistenza. È il museo di una democrazia che ha imparato, a caro prezzo, che alcune battaglie non finiscono mai.

E mentre il sole tramonta ancora oggi su Ustica, l’isola che ha dato il nome a una delle pagine più buie della storia italiana, il vento porta ancora l’eco di quella domanda che risuona da 45 anni: chi ha ucciso gli 81 passeggeri del volo IH870? Una domanda che non ha ancora una risposta completa ma che continua a interpellare la coscienza di un Paese che non ha mai smesso di cercare la verità.

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