de mare

Trentadue anni di silenzio: il cold case di Vincenzo De Mare ancora senza giustizia

L’omicidio dell’autotrasportatore lucano rimane irrisolto, nonostante tre diverse piste investigative e l’ipotesi di un delitto di matrice mafiosa legato al traffico di rifiuti.

Scanzano Jonico – Il tempo sembra essersi fermato in quella torrida mattina del 26 luglio 1993, quando due colpi di fucile spezzarono per sempre la vita di Vincenzo De Mare. L’autotrasportatore della Latte Rugiada spa, proprietario di un podere nella contrada Terzo Caracciolo, fu assassinato mentre arava il suo campo con il trattore. Due fucilate a distanza ravvicinata, una al capo e una al petto, che trasformarono un normale giorno di lavoro in una tragedia che da trentadue anni attende ancora giustizia.

Un delitto che ha attraversato tre decenni

La storia di Vincenzo De Mare è quella di un uomo comune che si trovò, probabilmente senza saperlo, al centro di traffici ben più grandi di lui. Marito e padre di due figli allora minorenni, Davide e Daniela, la sua morte ha lasciato una famiglia distrutta e una comunità sotto shock. Ma soprattutto ha aperto uno dei cold case più emblematici del Metapontino, una di quelle storie che raccontano di uno Stato che, nonostante gli sforzi, non è riuscito a garantire giustizia alle vittime.

Il luogo del delitto di Vincenzo De Mare

L’omicidio avvenne in circostanze che già allora fecero pensare a un agguato premeditato. De Mare stava lavorando nel suo podere quando qualcuno lo raggiunse e lo uccise con freddezza. La dinamica dell’omicidio, con i colpi sparati a bruciapelo, suggeriva un assassinio mirato, non un crimine occasionale o passionale.

Le prime indagini e la pista del conflitto personale

Le prime investigazioni si concentrarono su possibili contrasti personali. I carabinieri individuarono un sospettato: un pensionato della zona che fu accusato dell’omicidio. Tuttavia, questa pista si rivelò presto inconsistente. L’uomo fu completamente scagionato dalle accuse, lasciando gli inquirenti al punto di partenza e aprendo la strada a nuove ipotesi investigative.

L’archiviazione del primo fascicolo non scoraggiò chi credeva nella necessità di fare giustizia. Le indagini ripresero con un approccio completamente diverso, concentrandosi su aspetti che inizialmente erano stati trascurati ma che avrebbero potuto fornire la chiave di lettura per comprendere il vero movente dell’omicidio.

La seconda pista: i traffici illeciti Nord-Sud

La Polizia decise di approfondire una pista completamente diversa, quella dei traffici di rifiuti che negli anni Novanta rappresentavano un business criminale di proporzioni enormi. L’ipotesi era che Vincenzo De Mare, nella sua attività di autotrasportatore, fosse venuto a conoscenza di movimenti illegali di rifiuti dal Nord verso il Sud Italia, una pratica criminale che in quegli anni coinvolgeva organizzazioni mafiose e imprenditori senza scrupoli.

Questa seconda linea investigativa si basava sulla considerazione che il Metapontino, per la sua posizione geografica e le sue caratteristiche territoriali, potesse essere utilizzato come area di smaltimento illegale. L’autotrasportatore avrebbe potuto rappresentare un ostacolo o un testimone scomodo per chi gestiva questi traffici illeciti.

Traffici illeciti di rifiuti

Tuttavia, anche questa pista, nonostante gli sforzi degli investigatori, non portò a risultati concreti. Le prove raccolte non furono sufficienti per individuare responsabili specifici e il fascicolo venne nuovamente archiviato, lasciando la famiglia De Mare e l’opinione pubblica con l’amaro sapore dell’incompiuto.

L’intervento della Direzione Distrettuale Antimafia

Nel 2005, dodici anni dopo l’omicidio, il caso conobbe una svolta significativa con l’intervento della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza. La DDA decise di riaprire le indagini partendo da una prospettiva completamente nuova: quella di un delitto di stampo mafioso legato al traffico di rifiuti tossici.

Questa volta l’indagine assunse contorni molto più definiti. Cinque persone finirono nel mirino degli investigatori: un mix di “colletti bianchi” e figure legate alla criminalità organizzata. Secondo la ricostruzione della DDA di Basilicata, Vincenzo De Mare si sarebbe opposto a questi traffici illegali, diventando così un ostacolo da eliminare per chi gestiva il business criminale.

L’ipotesi investigativa disegnava un quadro inquietante: De Mare non sarebbe stato una vittima casuale ma avrebbe pagato con la vita la sua opposizione a un sistema criminale che utilizzava il suo territorio per scopi illegali. La sua morte sarebbe stata un “messaggio” per chiunque avesse pensato di ostacolare questi traffici.

Un’altra archiviazione e le ultime speranze

Nonostante l’impegno della DDA e l’apparente solidità della ricostruzione, anche questa terza inchiesta si concluse con un’archiviazione. Le prove raccolte, evidentemente, non furono ritenute sufficienti per sostenere un’accusa in tribunale. Un risultato che rappresentò un’ulteriore delusione per chi sperava finalmente nella verità.

Dia

L’ultimo capitolo giudiziario ha riguardato un’accusa di false dichiarazioni al pubblico ministero contro un agricoltore della zona. L’uomo è stato condannato in primo grado ma il reato si è prescritto in appello, chiudendo anche questa possibilità di fare luce sul caso.

Il peso del tempo e la ricerca della verità

Trentadue anni sono un tempo lungo, forse troppo lungo per una ferita che non si è mai rimarginata. Molti hanno dimenticato, come spesso accade con le tragedie che non trovano una conclusione. Ma non i figli di Vincenzo, Davide e Daniela, che continuano a portare il peso di una perdita mai elaborata completamente per mancanza di giustizia.

Il caso De Mare rappresenta uno dei tanti fascicoli chiusi come “delitto commesso da ignoti” che popolano gli archivi dei tribunali del Mezzogiorno. Una sconfitta per lo Stato di diritto che non può accettare che un omicida, e i suoi eventuali complici, continuino a vivere liberamente nella società dopo aver tolto la vita a un uomo innocente.

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