I magistrati adottano la strategia del non sciopero ma ribadiscono la ferma contrarietà alla norma. In Francia nel 2008 esperimento fallito.
Roma – La strategia del non sciopero. I magistrati scelgono di stare a guardare le mosse del governo che li tirano in ballo. Contro i test psico attitudinali per le toghe serve una “reazione costruttiva” perché, fa notare il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, la loro introduzione “ci ha fatto fortemente indignare, ma la nostra indignazione deve essere controllata, che non significa cedere a un realismo che tende a ridimensionare la portata delle cattive riforme”. Una tregua armata?
Santalucia sottolinea: “Abbiamo la possibilità di strutturare una azione elaborata, perché la legge sarà operativa dal 2026″. E sull’ipotesi di sciopero contro i test circolata nelle scorse settimane spiega: il direttivo “si deve pronunciare” sulle azioni da mettere in campo, ha chiarito il presidente dell’Anm, spiegando la sua proposta di procedere a “un’istruttoria, che sul tema non è stata fatta, rafforzando la nostra posizione con i pareri di psicologi e costituzionalisti, per poi chiedere a Camera e Senato di eliminare questa novità che non ha ragione di essere”.
La posizione delle toghe è nota. I test psicoattitudinali per l’ingresso in magistratura “sono una misura demagogica e incostituzionale che scredita la magistratura italiana”, hanno tuonato in un documento approvato il 6 aprile, all’unanimità, dal comitato direttivo centrale. L’Associazione nazionale magistrati ha ribadito la “ferma e assoluta contrarietà” all’introduzione dei test “perché inutile e frutto di una valutazione approssimativa, in quanto prescinde da accreditate opinioni scientifiche anche di esperti della Associazione psicoanalitica Italiana”.
Un modo per “mostrare la forza dell’esecutivo che può decretare la sottoposizione della magistratura al potere”, una “forma di controllo della personalità dei magistrati” perché “il rischio è che la psicologia si trasformi in strumento di controllo del modo di pensare e di agire”, afferma Santalucia. “L’introduzione dei test psicoattitudinali risponde alla volontà di indurre i futuri magistrati ad aderire ad una logica di sistema, a controllarli, a sminuirne in ultima battuta la loro indipendenza”, denuncia il leader delle toghe ammonendo: “Non dobbiamo sottovalutare i test. E’ una scatola vuota, un puro messaggio di propaganda che fa pensare che i giudici non siano capaci di decidere con equilibrio“.
Di “nessuna coerenza con la legge delega” ha parlato anche il segretario dell’Anm, Salvatore Casciaro, che ha evidenziato come i test presuppongano “l’individuazione di un tipo di magistrato” che è “un fuor d’opera, uno sforzo inutile”. A suo giudizio “quello che rimane è un effetto sfregiante per la categoria”, il “messaggio che i magistrati ordinari necessitano di un controllo psichico”, che è “un messaggio falso e demagogico”. Ma se è vero, e forse lo è, che i test psico-attitudinali per i magistrati, specie se non più ripetuti dopo il concorso, servono a poco, perché tanta agitazione tra le toghe? Fino alle minacce di sciopero e di ricorsi alla Corte Costituzionale?
Qualcuno ha citato la poesia di Trilussa sul cane- poliziotto per evocare il desiderio ossessivo del governo di ridurre il giudice a un fedele quadrupede a lui sottoposto. Qualcun altro si chiede se il ministro non voglia alludere alla pazzia dei magistrati. Ma c’è tempo fino al 2026. Intanto, ci si guarda intorno per vedere cosa facciano altri Paesi. Ad esempio, nel 2008 il governo di Parigi aveva previsto un meccanismo di selezione delle aspiranti toghe basato (anche) su test e colloqui psico-attitudinali, dello stesso tipo di quello appena introdotto in Italia.
Ma l’esperimento tra i cugini francesi è fallito, spingendo il ministero della Giustizia a fare dietrofront dopo meno di otto anni. Al momento rimane prevista solo la presenza di uno psicologo nella commissione di concorso, che però si limita a valutare le prove orali insieme agli altri componenti (sei magistrati, un professore universitario, un avvocato e un esperto di risorse umane). Tutto era in un decreto del governo che riformava il concorso: accanto alle classiche prove scritte e orali, si prevedeva che ogni candidato fosse valutato da uno psicologo tramite un parere scritto, messo a disposizione della commissione esaminatrice per il giudizio finale. Il parere si basava su “test di personalità e attitudinali della durata massima di tre ore” e su “un colloquio della durata massima di trenta minuti”, quest’ultimo da tenersi “alla presenza di un magistrato”.
Le prove somministrate erano due: un “inventario della personalità” composto da 240 domande e il cosiddetto “test del domino“, un quiz psicotecnico per misurare l’intelligenza generale. A differenza di quanto succederà in Italia, però, i test erano affrontati prima delle altre prove e non dopo, svolgendo quindi una funzione di scrematura della massa dei candidati: il decreto approvato dal Consiglio dei ministri, invece, prevede che a sottoporsi alla valutazione psicologica siano i candidati già risultati idonei alla prova scritta.