Che piacesse o meno, per decenni l’equilibrio internazionale ha poggiato su determinate architravi, blocchi ben individuabili di interessi e di potere. Poi, a un certo punto, il sovranismo è arrivato anche a Washington. E oggi il mondo brucia.
Oggi il nostro giornale apre con una panoramica sui conflitti disseminati per il pianeta. Questa rubrica non può che allinearsi, considerata l’emergenza: il mondo brucia e nelle ultime 24 ore sono divampati ulteriori focolai.
Le immagini che giungono in queste ore dalla Striscia di Gaza si commentano da sole: intere città si fermano al suono delle sirene di allarme missilistico. Ha cominciato Israele, peraltro aggrovigliato nell’instabilità politica, sostanzialmente con due primi ministri che si contendono la leadership, al punto che c’è chi attribuisce l’iniziativa militare ad uno scontro di potere interno. Un raid mirato su Gaza City ha eliminato uno dei leader più sanguinari della Jihad islamica palestinese, che ha immediatamente risposto con un diluvio di missili. E’ verosimile che la situazione peggiori nelle prossime ore.
A Hong Kong hanno dato fuoco a un uomo (filocinese). Costui non condivideva le proteste: lo hanno cosparso di liquido infiammabile e lo hanno acceso. Poi un agente ha sparato a freddo a un manifestante. La polizia ha assediato l’università: si combatte dove prima si studiava, si divelgono i semafori, gli arresti sono saliti a circa 300.
I boliviani intanto si riversano per le strade: il presidente è scappato in Messico e l’esercito ha preso il potere. E poi c’è il Cile, e prima il Venezuela, e si sta surriscaldando pure il Brasile, con Lula pronto a sfidare Bolsonaro (che intanto si appresta a abbandonare il suo partito per crearsene uno su misura, possibilmente ancora più a destra). Per non parlare di Turchia e Siria, del confine russo in Ucraina, della Corea che si diletta a gettare missili nel mar del Giappone.
Due indizi non fanno una prova, duecento indizi forse sì. L’escalation di instabilità mondiale avrà certamente ragioni plurime, eterogenee e specifiche, caso per caso, ma la percezione è che sia in qualche modo venuto meno un argine. Che piacesse o meno, per decenni l’equilibrio internazionale ha poggiato su determinate architravi, blocchi ben individuabili di interessi e di potere. Gli Stati Uniti hanno sovente ricoperto il ruolo di “poliziotto” del mondo. Che lo si condividesse oppure no, che si trattasse di prudenza o di neocolonialismo, poco importa: le cose stavano così.
Poi, a un certo punto, il sovranismo è arrivato anche a Washington, il presidente Trump si è dedicato (bene o male) esclusivamente a tasse e muri, ed il Paese si è ripiegato su se stesso. Dimenticandosi del resto. Sia chiaro, agli occhi dei detrattori dell’impero americano, nella sostanza una simile operazione potrebbe alla lunga apparire anche positiva. Permane, però, un problema di metodo.
Come ogni scelta improvvisa e non preparata, un simile disimpegno privo di transizione ha portato con sé destabilizzazioni anche a migliaia di chilometri di distanza. E se un tempo in ambienti conservatori si usava dire che i democratici cominciano le guerre (perché troppo morbidi) e i repubblicani le concludono (perché sufficientemente duri), ora sappiamo che i sovranisti, semplicemente, le ignorano.
Chissà come la pensa invece Bloomberg…