Periodicamente i puristi della lingua si lamentano per la cosiddetta invadenza dell’inglese nel nostro parlato. Chiedono di fare un passo indietro e ritornare a definizioni esclusivamente in italiano, per preservare il nostro idioma che sentono minacciato. Un piano poco verosimile e difficilmente attuabile.
Periodicamente i puristi della lingua si lamentano per la cosiddetta invadenza dell’inglese nel nostro parlato. Chiedono di fare un passo indietro e ritornare a definizioni esclusivamente in italiano, per preservare il nostro idioma che sentono minacciato. Un piano poco verosimile e difficilmente attuabile. La rivoluzione nelle nostre vite è partita dalla Silicon Valley e noi italiani siamo arrivati a usare il computer su larga scala almeno 10 anni dopo gli USA. Le parole americane sono scivolate nel nostro parlato senza nessuno sforzo, con il vantaggio di una comprensione internazionale.
Sono intraducibili, a rischio di cadere nel ridicolo, tutte le parole che hanno la capacità di esprimere concetti recenti che, molto spesso, riguardano la tecnologia. Web, dark web, youtube, computer, influencer, maps, shot screen, sono insostituibili almeno per due motivi. Il primo è che dovremmo inventare un termine ad hoc, come hanno fatto per esempio i francesi con ‘ordinateur’. Oppure, poiché una parola per essere definita italiana deve terminare con una vocale, dovremmo modificare computer in computero o computera. Lo screen shot, cioè la fotografia istantanea dello schermo di un computer o di uno smartphone, richiederebbe una traduzione lunghissima perché non è una semplice foto ma un’istantanea fatta con apparecchio elettronico a un contenuto dello stesso. Il web, poi, conosciuto a livello globale con questo nome, se sostituito dalla parola ‘rete’, creerebbe una miriade di ambiguità.
Il secondo motivo, e forse il più importante dell’adozione dell’inglese come lingua franca, riguarda la concisione. L’inglese è in massima parte composto di parole brevi. La frase stessa è più compressa di quella italiana. Se mettiamo a confronto uno scritto inglese e uno italiano, quello inglese è più corto almeno del 10%. Non solo ha più senso leggere contenuti concisi, ma, dal punto di vista editoriale, c’è anche un vantaggio economico. E inoltre, chi può decidere cosa si può o non si può prelevare dall’inglese? La lingua è un sistema con una vita propria, si adegua alle popolazioni che la parlano perché solo le lingue morte sono statiche. In base alla loro frequenza d’uso, le parole, anche straniere, vengono memorizzate e adottate, creando una sorta di contagio nelle menti umane. Chi aveva mai sentito parlare di ‘tracimazione’ prima che i giornali ne diffondessero l’uso?
Il problema dell’acquisizione di molti termini inglesi nella nostra lingua è più sociale e antropologico che non di forma. I prestiti linguistici inglesi sono solo una facciata e una conseguenza di una ben più complessa realtà: l’americanizzazione della nostra società. In questo presente, per certi versi distopico, il problema linguistico è una conseguenza di cambiamenti di costume che mettono a rischio l’identità italiana più di quanto non lo faccia la trasformazione della lingua stessa. Non è l’italiano che necessita di una respirazione bocca a bocca per sopravvivere ma è la quotidianità italiana che perde pezzi. Un esempio banale? “Domino pizza” è sbarcato nel paese della pizza.
Le traduzioni, poi, come gli amanti libertini, non sono fedeli. Il breakfast, con la sua varietà di alimenti salati e dolci che rompono (break) un prolungato digiuno (fast) notturno, non è la colazione con il caffe e una piccola brioche, ma piuttosto quella che si serve negli alberghi. La happy hour non è solo un momento della giornata in un bar dove le consumazioni sono a un prezzo ridotto, ma un momento di socializzazione tipicamente anglosassone, che connota una atmosfera frizzante e rilassata dopo il lavoro. Tradurlo in italiano con ‘ora felice’, impedisce di capire a quale evento ci si stia riferendo.
Il mondo sta correndo e anche noi italiani gli ansimiamo dietro, poiché sono cambiati gli equilibri e le dinamiche della nostra società. Se i ragazzi degli anni ‘70 gareggiavano per il lavoro solo contro loro stessi, i millennial devono lottare come i gladiatori nell’arena. Devono eliminare la concorrenza per raggiungere il podio, perché il podio è improvvisamente assediato da milioni di persone. E la parola competitor rende meglio l’idea di questa lotta feroce che non il più equo ‘avversario’. Le università stanno creando sempre più corsi di studio in inglese e, con buona pace dei puristi, non sono certo le lezioni in italiano al Politecnico a diffondere la locuzione ‘buchi dei vermi’, per parlare dei wormholes, la scorciatoia spazio-temporale dell’universo. Anche nel campo della scienza, infatti, esiste l’impossibilità di trovare parole italiane che si avvicinino alla nuova terminologia ormai diffusa in lingua inglese. In medicina, poi, ha senso pubblicare solo in inglese nelle riviste specializzate perché è lì che ci si confronta con esiti di ricerca globali. Forzare l’utilizzo dell’italiano dove il linguaggio del progresso è in inglese porterebbe a depauperare il nostro patrimonio del sapere, accelerando una tendenza alla provincializzazione dell’Italia in atto da anni.
Paradossalmente la scelta di usare l’inglese come lingua veicolare vale anche nelle facoltà umanistiche. Per capire il Rinascimento italiano bisogna leggere Berenson e nessuno ha ancora documentato così bene come Anthony Gibbons il declino dell’impero romano. Se poi vogliamo attrarre studenti internazionali, che sono una risorsa culturale ed economica, dobbiamo offrire corsi in inglese. Ma il vero motivo per cui si dovrebbe imparare l’inglese è la forma mentis che ti fornisce questo idioma. La duttilità della lingua italiana di assemblare anarchicamente gli elementi in una frase, se, per alcuni, è una ricchezza, conduce però anche a verbosità e ambiguità, che creano una certa confusione mentale.
Con buona pace della petalosa Accademia della Crusca.