La donna non è stata riconosciuta vittima della mafia e la famiglia non ha ricevuto alcun indennizzo perché l'assassino si è spogliato di tutti i suoi beni. Per non pagare.
Napoli – Era stata uccisa perché aveva avuto il coraggio di denunciare l’aguzzino che aveva abusato della figlia. Dopo la condanna dei sicari ad una pena modesta la donna, a cui è stata conferita la medaglia d’oro al valor civile, non è stata riconosciuta vittima della criminalità organizzata e gli eredi non hanno ricevuto alcun indennizzo.
Teresa Buonocore, 51 anni, all’epoca dei fatti, era impiegata in un centro Caf di Napoli e aveva 4 figli, di cui due bambine nate da un secondo matrimonio. La donna era particolarmente attenta all’educazione dei figli a cui non faceva mancare nulla, specie alle due sorelle più piccole, lavorando sodo e con fatica quotidiana attese le necessità della famiglia.
Nel 2008 la figlia più piccola, Alessandra di 8 anni, era solita recarsi a giocare nell’abitazione di un vicino di casa dove c’era un’altra bambina con cui aveva fatto amicizia. Proprio in quella casa Alessandra e un’altra coetanea furono oggetto delle turpi attenzioni sessuali di Enrico Perillo, 54 anni, geometra pregiudicato e padre di due figlie al tempo minorenni. Venuta a conoscenza della gravissima situazione Teresa Buonocore decideva di denunciare il pedofilo che alcuni giorni dopo veniva arrestato.
Al processo Teresa aveva avuto il coraggio di costituirsi parte civile e di raccontare per filo e per segno quanto le aveva riferito la figlioletta la cui violenza subita non lasciava adito a dubbi. L’amichetta di Alessandra, a sua volta, rivelava e confermava gli abusi sessuali subiti tanto da lasciare pochi margini di difesa per l’ormai conclamato adescatore di bambine.
La mattina del 20 settembre di dieci anni fa, mentre Teresa di trovava a bordo della sua auto in via Ponte dei Francesi, due giovani a bordo di una moto e col volto travisato dai caschi integrali, superavano il veicolo che procedeva a velocità ridotta dal traffico. Uno di loro esplodeva 4 colpi di pistola calibro 9 che centravano Teresa al volto e al petto uccidendola sul colpo.
Inutili i soccorsi. Teresa Buonocore, la mamma coraggio che aveva denunciato l’orco della figlia era stata uccisa per vendetta. La polizia, nel giro di un giorno, aveva identificato i due presunti killer che corrispondevano alle fattezze di Alberto Amendola, 26 anni, tatuatore, e Giuseppe Avolio, 21 anni, lavorante in pescheria, poi arrestati con l’accusa di omicidio. I due confessarono le proprie responsabilità quasi subito nonostante le dichiarazioni di Amendola fossero state più volte impugnate dalla difesa di Enrico Perillo che i due giovani accusarono di essere il mandante dell’omicidio.
In casa del geometra la polizia aveva ritrovato un grosso quantitativo di armi composto da cinque pistole semiautomatiche, due pistole mitragliatrici oltre a migliaia di cartucce di vario calibro e due giubbotti antiproiettile che forse Perillo deteneva a disposizione della camorra locale. In buona sostanza l’uomo, già detenuto, aveva assoldato i due giovani per uccidere la donna “colpevole” di averlo denunciato e fatto condannare.
Infatti la Cassazione, nel gennaio del 2015, condannava Enrico Perillo alla pena dell’ergastolo mentre Alberto Amendola e Giuseppe Avolio, esecutori materiali dell’omicidio, venivano condannati, rispettivamente, a 22 e 18 anni di carcere con sentenza definitiva. Perillo veniva trasferito nel carcere di Modena dopo una prima evasione e cedeva il suo patrimonio al fratello cosi da evitare di versare i congrui risarcimenti disposti dal tribunale alle due figlie, alla sorella della vittima e agli enti pubblici che si erano costituiti parte civile:
”… È un’ingiustizia, c’è poco da dire – afferma Alessandra Cuevas, studentessa di 20 anni, figlia di Teresa Buonocore – non abbiamo avuto neppure il riconoscimento come vittime della criminalità, come purtroppo accade a tantissime altre persone. Ecco perché penso che, con mia madre, lo Stato abbia perso l’opportunità di cambiare le cose e fare scelte importanti per aiutare chi ha sofferto. Avrebbe potuto prendere spunto dalla nostra vicenda e lanciare un messaggio. Invece niente…”.
Il giudice Carlo Spagna, all’epoca dei fatti presidente della Corte d’Assise di Napoli che aveva condannato al fine pena mai Enrico Perillo, ha scritto un libro sulla tragica vicenda.