Reportage dalla Nuova Zelanda, una terra promessa per molti europei. Anche se c’è chi la definisce noiosa.
Il 29 aprile del 2013, Alexandra Hollis, emergente scrittrice neozelandese, esordì con un singolare contributo alla rivista online “Salient”, curata dalla Victoria University of Wellington Students’ Association.
“Una cosa è essere orgogliosi della tua eredità, ma un’altra cosa è abbandonare un’eredità più generale della “Nuova Zelanda” in favore dell’enfatizzazione di un’identità europea che pochi di noi hanno” afferma la Hollis. Continua: “Se la tua famiglia vive in Nuova Zelanda da più di tre generazioni e non hai nemmeno i requisiti per una residenza straniera, “Nuova Zelanda europea” è meno rappresentativa della tua eredità di “Pākehā”, perché hai un legame culturale più forte con la Nuova Zelanda rispetto all’Europa. Preferisco anche Pākehā come termine generale che può essere applicato a tutti i neozelandesi non-Māori, anche agli immigrati più recenti. I miei nonni, nati e cresciuti in Inghilterra, lo usano per definire se stessi”.
Per comprendere l’identità di un Paese per così dire “nuovo” come la Nuova Zelanda, è necessario considerare la composizione dei suoi abitanti: l’intera popolazione kiwi (nomignolo utilizzato per indicare tutta la popolazione di questo stato) è per il 74% di origine europea, principalmente inglese e scozzese, con minoranze tedesche, olandesi e italiane, per il 14,9% di etnia maori e la percentuale restante è costituita da asiatici. L’appellativo che la Hollis ha usato per indicare se stessa, Pakeha, è una parola di origine maori utilizzata per includere tutti coloro che non appartengono all’etnia oceanica indigena e che hanno tratti nordici e pelle chiara. Nonostante Pakeha sia nato per tracciare una linea di confine tra nativi e immigrati, non dev’essere per forza visto come un termine discriminante e forse resta la parola migliore per indicare chi vive in Nuova Zelanda ma non ha origini polinesiane come i veri Maori.
Secondo la giovane scrittrice la questione delle origini porta spesso i neozelandesi a rispondere alla domanda “Da dove vieni?” con una spiegazione più esaustiva rispetto a un semplice: “Sono pakeha!”. Sembra esista, quasi, un’innata, intima necessità di specificare in quale paese genitori, nonni o addirittura bisnonni siano nati. E da cosa deriva questa necessità di precisazione “sono maori” o “sono pakeha”? I primi ad arrivare in Aotearoa, la “terra della lunga nuvola bianca”, ovvero la Nuova Zelanda, furono i navigatori polinesiani che si stabilirono su queste isole circa 1.000 anni fa.
I contatti con gli europei iniziarono nel 1642, quando l’esploratore olandese Abel Tasman (1603-59) sbarcò sulla costa occidentale della Nuova Zelanda. La spedizione, però, fu un insuccesso, molti membri del suo equipaggio vennero uccisi dai maori e, per lungo tempo, gli esploratori non si avventurarono più verso quelle contrade.
All’epoca in cui, nell’ottobre 1769, James Cook (1728-79) vi approdò, in Nuova Zelanda, la civiltà maori era fiorente e probabilmente contava 250.000 membri disseminati tra le due isole principali e quelle minori.
In un primo momento la Nuova Zelanda fu poco più di una base per le baleniere europee nel Pacifico del Sud. Successivamente, nel XIX secolo, la crescente immigrazione europea mise i Maori in gran pericolo a causa delle nuove malattie, introdotte dai forestieri, contro le quali gli indigeni non avevano anticorpi. Il risultato fu un forte aumento della mortalità che, in breve, dimezzò la popolazione locale. Il Trattato di Waitangi, firmato nel 1840 con il governo inglese, istituì la sovranità britannica in Nuova Zelanda e nel contempo costituì una sorta di garanzia alla salvaguardia dei diritti degli indigeni maori in cambio del riconoscimento, da parte di questi ultimi, dell’autorità della corona.
Tuttavia i coloni continuarono a fare pressioni per possedere più terre e le varie tribù maori, facendo fronte comune, cercarono di ribellarsi. Fu un periodo tumultuoso durante il quale ancora una volta gli indigeni in minoranza si videro costretti alla resa.
È facile capire per quale motivo i kiwis, di origine europea, non furono mai ben visti dagli autoctoni. Oggi la Nuova Zelanda è una democrazia parlamentare indipendente nell’ambito del Commonwealth britannico, ma il capo dello stato è formalmente il sovrano del Regno Unito, rappresentato da un governatore locale di nomina regia. Il Paese è privo di una formale costituzione scritta e possiede solo un corpus di documenti amministrativi e di atti giuridici su cui si fonda la direzione del governo.
La Nuova Zelanda è uno stato, dunque, relativamente giovane e, come afferma James Belich, professore di storia dell’università di Wellington, la società neozelandese è estremamente variegata.
Moira Clunie, dell’Istituto Mentale della Nuova Zelanda, precisa: “In questo paese manca ancora un senso di appartenenza comune e una storia culturale collettiva”.
La mancanza di una consolidata identità nazionale spinge i coloni europei a mantenere un legame ancora molto forte col continente d’origine e forse per questo alla semplice domanda “da dove vieni?”, essi tendono a dare spiegazioni precise riguardanti la nazione di provenienza della loro famiglia.
Dunque quello che forse serve alla Nuova Zelanda è solo il tempo necessario per tracciare una propria storia.
Ma come viene accolto un viaggiatore in un paese tanto variegato?
La Nuova Zelanda è una terra accogliente e piena di opportunità per chi ha voglia di mettersi in gioco e di rimboccarsi le maniche.
I visti lavorativi, della durata di un anno, permettono ai giovani al di sotto dei 31 anni di fare un’esperienza costruttiva in campo lavorativo all’estero, e, al contrario della ormai più selettiva Australia, questo stato offre l’opportunità di prolungare il proprio visto in base alle skills personali.
Naturalmente i primi a beneficiare di agevolazioni sui visti sono i viaggiatori proveniente da stati del Commonwealth; ciononostante Aotearoa, terra che ha accolto molte genti diverse, non nutre pregiudizi sui nuovi arrivati, che, magari, portano ancora con sé le peculiarità di quelle che sono le antiche patrie di origine a cui spesso i neozelandesi volgono lo sguardo.
Chi viene qui per costruirsi una vita diversa, un futuro, delle prospettive spesso risente dei cari lontani fantasmi dell’Europa.
Così alla semplice e diretta domanda: “ti piace qui?”, due immigrati europei su tre, dopo aver decantato le meraviglie del paese che li ha accolti, rispondono con sguardo nostalgico: “boring”.
Boring, noioso. Le calli di Venezia, i vicoli ottocenteschi di Londra, le imponenti rovine dell’Acropoli di Atene, tanto per citare alcune contrade tra le più note del Vecchio Continente, sono luoghi in cui aleggiano i fantasmi della storia passata e chi è abituato a respirare questi echi ne soffre la mancanza in un paese ancora adolescente di esperienza umana.
Perché, dunque, se definito un paese noioso, la Nuova Zelanda rimane comunque una meta agognata?
Penso che la risposta sia da ricercare nell’innata apertura mentale tipica di un paese cresciuto sotto gli influssi di genti molto diverse tra loro.
La Nuova Zelanda è l’America dei nostri bisnonni. È un paese che può ancora tendere le braccia per accogliere una nuova generazione di migranti desiderosi di crearsi un futuro lavorativo soddisfacente, che nella cara vecchia Europa sembra, molto spesso, non più realizzabile.