Simbolo della lotta per i diritti delle donne, Mohammadi si batte da sempre contro il hijab e la pena di morte. Arrestata 13 volte, deve scontare 31 anni.
Una sedia vuota e un ritratto. Ma ci sono assenze che fanno più rumore di tante presenze. Ieri a Oslo l’attivista iraniana Narges Mohammadi non ha potuto intervenire alla cerimonia di consegna del Premio Nobel per la Pace perché reclusa da mesi in una cella del famigerato carcere di Evin, a Theeran, dove il regime degli ayatollah rinchiude i dissidenti. Eppure la sua assenza, e quel vuoto reso ancor più plastico dalla sedia vacante, è stato un potente atto di denuncia contro la barbarie della teocrazia iraniana.
Non c’era Narges, ma ha parlato lo stesso, aggirando la censura del regime che vorrebbe tacitare lei e tutte le donne iraniane in lotta. A ritirare il premio al suo posto sono stati i figli gemelli Kiana e Ali, di 17 anni, che vivono in esilio in Francia con il padre, e che alla cerimonia hanno letto il discorso di ringraziamento scritto dalla madre. Strenua oppositrice dell’obbligo di indossare l’hijab per le donne e della pena di morte nel Paese, Mohammadi ha condannato il “regime religioso tirannico e misogino” dell’Iran.
“Sono una dei milioni di donne iraniane orgogliose e resistenti che si sono opposte all’ingiustizia/oppressione, alla repressione, alla discriminazione e alla tirannia. -ha scritto l’attivista nel messaggio -. Ricordo le donne anonime e coraggiose che hanno condotto una vita di resistenza in vari campi, nonostante la spietata repressione”. E ancora: “Sto scrivendo questo messaggio da dietro le alte e fredde mura di una prigione. Sono una donna del Medioriente, di una regione che, sebbene erede di una ricca civiltà, è attualmente intrappolata nella guerra e preda delle fiamme del terrorismo e dell’estremismo“.
Narges Mohammadi, 51 anni, è attivista sin dai tempi in cui studiava Fisica all’università, anni in cui ha fondato il gruppo degli “Studenti illuminati”. Già a partire dagli Anni ’90 ha cominciato ad entrare e uscire dalle prigioni. Quello contro l’hijab obbligatorio per le donne è da sempre il suo cavallo di battaglia e l’ha esposta alla repressione del regime. Arrestata 13 volte, condannata cinque volte a un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate, dal 2016 è detenuta nel carcere di Evin a Teheran, nella sezione 209, quella in cui si trovano dissidenti, prigionieri politici e giornalisti. Luogo di torture e di gravi violazioni dei diritti umani secondo Amnesty international, che recentemente aveva richiamato l’attenzione proprio su di lei perché le venivano negate le cure mediche per una malattia polmonare di cui soffre.
Da 11 anni non vede il marito e da sette i due figli, ma non si piega. Nelle ore in cui a Oslo l’hanno insignita del Premio Nobel, l’attivista in carcere ha cominciato uno sciopero della fame in solidarietà con la minoranza religiosa di fede baha’i in Iran. Il Premio assegnato dal Comitato di Oslo è a lei e a chi insieme a lei porta avanti il movimento nonviolento “Donne vita libertà”, sbocciato in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, la ragazza arrestata il 13 settembre 2022 dalla polizia religiosa nella capitale iraniana a causa della mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo, e deceduta in circostanze sospette il 16 settembre, dopo tre giorni di coma. Alla memoria di Masha sarà assegnato tra due giorni (13 dicembre) a Strasburgo il Premio Sakharov ma la sua famiglia non ci sarà perché il regime ha ritirato a tutti loro il passaporto. Sarà un’assenza come quella di Narges, tutt’altro che muta, un grido di dolore lanciato al mondo.