L'Europa guarda i Balcani come merce di scambio mentre la Cina ha iniziato la fagocitosi commerciale
Sebbene siamo portati a pensare che il colonialismo sia una pratica legata al passato, qualcosa di anacronistico rispetto ai tempi d’oggi, la geopolitica attuale ci mostra uno scenario differente. Con la dissoluzione della Jugoslavia, i paesi dell’Europa Centro-Orientale sono stati catapultati in un vortice di odi nazionalistici, scontri fratricidi e rivendicazioni territoriali. Gli atavici sentimenti di grandezza della Serbia si sono abbattuti repentinamente sulla maggior parte dei territori balcanici, innescando una reazione a catena fatta di recriminazioni e violenza che hanno distrutto la solida economia titina e indebolito congiuntamente tutti i Paesi coinvolti.
Il decennio di guerra – le cui le ripercussioni sociali sono ancora evidenti – ha portato una comune regressione economica, trasformando i vari centri di potere locale in satelliti orbitanti intorno ai grandi mercati internazionali. Il colonialismo attuale, il cosiddetto neocolonialismo, si differenzia dalla pratica settecentesca per il camuffato uso della forza coercitiva; sebbene oggi non si possa parlare di veri e propri schiavi, le ripercussioni non sono meno brutali: emigrazione, disoccupazione e corruzione istituzionale sono le maggiori conseguenze provocate da tale pratica, oltre ad un abbassamento del potere d’acquisto delle popolazione colpite. Il neocolonialismo, inoltre, produce un’ulteriore “beffa” per i Paesi subalterni: il Know how, infatti, non viene condiviso con le popolazioni autoctone ma rimane di proprietà intellettuale dello Stato investitore. Così facendo si aumenta ancor di più quella discrepanza celata tra progresso e sviluppo, che vede il primo come avanzamento collettivo della qualità di vita ed il secondo legato unicamente alle attività economiche e dunque ai suoi imprenditori.
Proprio come accadde nel tardo Settecento il globo appare suddiviso in zone d’influenza, con gli Stati economicamente più progrediti che amministrano determinati lambi di terra e sui quali spesso hanno il potere di legiferare, più o meno direttamente, in misura maggiore rispetto ai legislativi locali.
La Cina, ad esempio, è uno degli Stati più coinvolti nella pratica neocoloniale. La sua influenza ha un raggio d’azione estremamente ampio, spazia dall’estremo oriente fino al continente africano, per raggiungere, negli ultimi anni, anche le zone balcaniche. Proprio in queste regioni, porta d’accesso per l’Europa Centrale, il governo cinese sta intensificando la propria presenza giocando una partita a scacchi con Bruxelles per il controllo della zona. La nuova Via della Seta, infatti, guarda con molta attenzione alla situazione del quadrante Centro-Orientale del Vecchio Continente, trovando, in un contesto politico fortemente frammentato e corrotto, una situazione ottimale dove investire.
In realtà l’interesse cinese verso i Balcani non è recente. Le prime avvisaglie si erano potute notare già nel 2012, anno in cui Pechino indisse un incontro internazionale noto come “Summit 16+1” – successivamente chiamato 17+1 dopo l’inserimento ellenico – in cui vennero coinvolti i Paesi dell’Europa Centro-Orientale per portare avanti un’azione di cooperazione economica. I documenti firmati alla fine dell’incontro tra il premier Li Keqiang e i 16 Paesi ponevano le basi per un percorso di investimenti economici, che Pechino avrebbe attuato nelle zone interessate, assolvendo così un ruolo di prim’ordine nello sviluppo infrastrutturale dell’Europa Centro-Orientale.
Gli investimenti in gran parte sono finanziati dalla Banca statale cinese che, mediamente, si fa carico dell’85% delle spese economiche. Dietro la benevolenza cinese, in realtà, si gioca una partita geopolitica molto più complicata che coinvolge anche la stessa Unione Europea. Infatti, molti degli Stati firmatari vorrebbero entrare a far parte dell’organizzazione internazionale europea ma non posseggono né i requisiti, né le finanze economiche necessarie per adoperare le opportune modifiche strutturali che permettono di inoltrare la domanda d’accesso. È in questo frangente che entra in gioco lo spirito imprenditoriale e neocolonialista di Pechino, realtà sempre meno socialista e sempre più finanziaria. Considerando che la rotta commerciale della Seta, per forza di cose, deve passare per i Balcani, gli eredi di Mao Tse Tung hanno deciso di inserirsi in maniera prepotente nelle commesse interne ai singoli Stati al fine di potenziare le infrastrutture necessarie per fluidificare i commerci. L’acquisizione del 67% del porto del Pireo da parte di una società statale cinese – COSCO – nel 2016 trova le sue motivazioni proprio in tale dimensione economica, fungendo come luogo d’approdo per la maggior parte delle merci made in China da immettere nel mercato europeo.
In quest’ottica assumono un valore fondamentale anche gli investimenti di Pechino volti a potenziare i tratti autostradali tra Salisburgo e Salonicco e tra Belgrado e Budapest. Non a caso la posizione geografica della Serbia risulta estremamente delicata per quanto concerne il piano di investimenti. L’ubicazione di Belgrado all’interno del quadrante balcanico è una porta diretta verso l’Unione Europea, nonché, anima di una nazione che mostra ancora tanto risentimento verso i bombardamenti subiti nel 1999 e una conseguenziale voglia di riscatto. L’allocazione di circa 10 miliardi verso la Serbia stessa e l’acquisizione cinese dell’impianto dismesso di Smederevo, trasformata in seguito in uno degli snodi cruciali dell’economia interna e fiore all’occhiello nel campo dell’export, testimoniano e avvalorano quanto prima ipotizzato.
I piani di Pechino sembrano essere di facile lettura: sfruttare un vuoto istituzionale e un disinteresse europeo verso i Balcani per nidificare i propri interessi economici. Infatti al contrario dell’UE il governo di Li Keqiang non pretende nessun adeguamento a codici morali come la democrazia o il rispetto dei diritti umani per pianificare gli investimenti economici strutturali. Basando i suoi rapporti su accordi bilaterali Pechino è riuscita ad inserirsi in maniera specifica nelle sfere decisionali di ogni Stato, di fatto, equiparando i propri interessi a quelli della controparte. Così facendo verrà sempre più a sfumarsi la differenza tra chi muoverà le decisioni esecutive nei singoli Stati balcanici. In secondo luogo, la maggior parte delle commissioni vinte da parte dei cinesi non implica un aumento occupazionale sul territorio, bensì il contrario. Le società statali cinesi, infatti, impiegano i propri operai trasferendoli sul luogo di lavoro e aumentando di conseguenza il rapporto di disoccupazione con la popolazione locale. La dilagante corruzione all’interno del potere politico dell’Europa Centro-Orientale, in ultimo, sprona l’aumento di questo fenomeno, facendo leva sugli interessi specifici dei governi e poco su quelli della popolazione.
L’Europa attualmente assiste silenziosa a questi sconvolgimenti economici che avvengono nel proprio cortile di casa, senza prestarci troppa attenzione. È in questi termini che va intesa la pratica del neocolonialismo: l’impossibilità di contrastare una realtà economicamente troppo forte che, al contrario, nasconde dietro la maschera della cooperazione l’intento di perseguire i più biechi interessi di massimizzazione del profitto, sfruttando le realtà più deboli.
Ancora una volta, dunque, l’Europa Centrale volta le spalle ai Balcani, considerandoli unicamente merce di scambio.