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Ilaria Alpi, la giornalista uccisa per amore della verità

Trent’anni di misteri, depistaggi e omertà. La ricostruzione completa del duplice omicidio che ha svelato i traffici illeciti tra Italia e Somalia e le connivenze dei servizi segreti.

Roma – Il 20 marzo 1994, nelle polverose strade di Mogadiscio, si consumò quella che ancora oggi rappresenta una delle pagine più oscure della storia del giornalismo italiano. Ilaria Alpi, 32 anni, inviata del TG3 RAI, e Miran Hrovatin, 38 anni, operatore televisivo croato, furono freddati a colpi di kalashnikov in un agguato che aveva tutti i contorni di un’esecuzione premeditata. Sette uomini armati sbarrarono la strada al loro fuoristrada nella zona nord della capitale somala, aprendo il fuoco senza pietà. Entrambi i giornalisti furono colpiti alla testa, in quella che si configurò – sin da subito – come un’eliminazione mirata piuttosto che un tragico caso di cronaca bellica.

Ilaria Alpi, nata a Roma il 24 maggio 1961, aveva sviluppato negli anni una specializzazione nel giornalismo d’inchiesta. Il suo approccio metodico e rigoroso l’aveva portata ad acquisire competenze trasversali in ambito economico, geopolitico e sociale. L’interesse per la Somalia non era casuale. Dal dicembre 1992 aveva intrapreso una serie di viaggi nel Paese africano per documentare la missione di pace internazionale “Restore Hope” ma il suo focus si era poi spostato su aspetti più complessi e inquietanti della presenza italiana in quella regione.

La rete di traffici illeciti: il cuore dell’inchiesta

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin lavoravano a un’inchiesta sui traffici di armi e rifiuti tossici tra Italia e Somalia e la loro attività giornalistica si era intensificata nei mesi precedenti l’omicidio. Alpi avrebbe infatti scoperto un traffico internazionale di rifiuti tossici prodotti nei Paesi industrializzati e dislocati in alcune nazioni dell’Africa in cambio di tangenti, un sistema criminale di enormi proporzioni che coinvolgeva soggetti italiani di primo ordine.

Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Il meccanismo era tanto semplice quanto redditizio: la Somalia accoglieva i rifiuti tossici, magari seppellendoli sotto un’autostrada, mentre dall’Italia partivano carichi di armamenti destinati alle fazioni in lotta nella guerra civile. Si trattava di un business che fruttava miliardi e che vedeva coinvolti imprenditori, colletti bianchi, funzionari statali e intermediari.

La complessità di questo traffico sarebbe emersa dalla documentazione che Ilaria Alpi aveva pazientemente raccolto durante i suoi sette viaggi in Somalia. La giornalista condusse indagini sulle navi della Shifco alla ricerca di riscontri, concentrandosi particolarmente sui movimenti di imbarcazioni sospette che facevano la spola tra i porti italiani e quelli somali. Omar Mugne, ingegnere della Shifco, società a cui apparteneva la Farah Omar, il peschereccio sequestrato a Bosaso di cui si occupò Ilaria Alpi nel suo ultimo viaggio in Somalia, rappresentava uno dei tasselli fondamentali dell’inchiesta.

Il personaggio chiave: Giancarlo Marocchino e la rete italiana

Una figura centrale nella ricostruzione del caso è rappresentata da Giancarlo Marocchino, imprenditore piemontese che aveva fatto della Somalia la sua seconda patria.

Giancarlo Marocchino

L’imprenditore era Il principale socio di Ahmed Duale, imprenditore somalo, ed era ampiamente utilizzato dal contingente italiano e dalla nostra cooperazione come uomo di fiducia ed esperto di logistica. Marocchino aveva costruito nel corso degli anni una rete di relazioni che lo rendeva un interlocutore privilegiato sia delle autorità italiane che dei signori della guerra somali.

La posizione di Marocchino era particolarmente delicata: ufficialmente consulente della cooperazione italiana e collaboratore delle forze militari del nostro Paese, era al tempo stesso sospettato di essere coinvolto nei traffici illeciti che interessavano la regione. Secondo il Sismi si occupava di logistica ed era sospettato di trafficare armi e rifiuti tossici e radioattivi. Questa duplice natura lo rendeva un osservato speciale per i giornalisti come Ilaria Alpi, che cercavano di districare la matassa dei rapporti tra Italia e Somalia.

Il paradosso emerso negli anni successivi è rappresentativo della complessità del caso: mentre collaborava con la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, presieduta da Carlo Taormina, l’imprenditore italiano Giancarlo Marocchino avrebbe trafficato per organizzare navi cariche di “camion militari”, “gomme triturate” e “acido solforico” da spedire in Somalia. Una situazione grottesca che evidenzia come le indagini sarebbero state inquinate fin dall’inizio da conflitti di interesse e connivenze che hanno reso praticamente impossibile arrivare alla verità.

Carlo Taormina

La tangentopoli della cooperazione

Parallelamente ai traffici di armi e rifiuti tossici, Ilaria Alpi stava indagando su quello che venne definito il sistema della “tangentopoli della cooperazione”. Si trattava di un meccanismo perverso attraverso il quale si dirottavano i fondi destinati agli aiuti umanitari verso operazioni commerciali private, spesso collegate ai traffici illeciti. La Somalia, in questo contesto, rappresentava un laboratorio ideale per questo tipo di attività criminali, data l’assenza di un governo centrale e il caos istituzionale che caratterizzava il Paese.

I tempi delle sette missioni di Ilaria Alpi in Somalia non sono casuali ma legati al suo modo di lavorare: studiare, conoscere, capire, verificare e raccontare. E soprattutto intrecciare quanto accadeva in Italia a quello che succedeva in Somalia. Questa metodologia di lavoro aveva permesso alla giornalista di individuare connessioni precise tra eventi apparentemente scollegati, ricostruendo un quadro complessivo che minacciava di far crollare un sistema consolidato di interessi economici e politici.

Ilaria Alpi

Il contesto geopolitico: la Somalia come “ventunesima regione”

Per comprendere appieno la portata delle indagini di Ilaria Alpi è necessario considerare il particolare rapporto che legava l’Italia alla Somalia. Il Paese africano era stato una colonia italiana fino al 1960, mantenendo – anche dopo – stretti legami economici e politici con l’Italia. La “nostra ventunesima regione”, come veniva chiamata la Somalia, rappresentava molto più di una semplice espressione: era la sintesi di decenni di rapporti privilegiati che avevano creato una rete di interessi difficile da scalfire.

Questo legame storico aveva favorito la creazione di canali preferenziali per le attività commerciali, legali e illegali, che vedevano coinvolti soggetti italiani a diversi livelli. La presenza della missione internazionale “Restore Hope” aveva ulteriormente complicato il quadro, creando opportunità inedite per chi sapeva muoversi nell’ombra tra cooperazione ufficiale e affari privati.

L’assassinio di Hashi Omar Hassan: un testimone scomodo

Uno degli aspetti più inquietanti del caso Alpi è rappresentato dalla morte di Hashi Omar Hassan, avvenuta a Mogadiscio nel luglio 2022. Il cittadino somalo, accusato ingiustamente dell’omicidio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, si era fatto quasi 20 anni di carcere. Hassan era stato inizialmente indicato come uno degli esecutori dell’omicidio ma le indagini successive avevano dimostrato la sua estraneità ai fatti.

Hashi Omar Hassan

La morte di Hassan, avvenuta in circostanze mai chiarite, ha privato gli investigatori di un testimone che negli ultimi anni aveva iniziato a rivelare dettagli importanti sui veri responsabili dell’omicidio. Prima di morire, Hassan aveva dichiarato di temere per la sua vita, sostenendo che “in Somalia sono pronti a uccidermi” perché la verità sui mandanti dell’assassinio di Alpi e Hrovatin non venisse mai fuori.

Le novità del 2024 e 2025: documenti scomparsi e nuove testimonianze

Nel corso del 2024, a trent’anni dall’omicidio, sono emersi nuovi elementi che hanno riacceso l’attenzione sul caso dei due giornalisti uccisi a Mogadiscio. Le indagini hanno rivelato che, immediatamente dopo l’agguato, sono spariti tutti i documenti, le fotografie e il materiale che Ilaria Alpi aveva raccolto durante le sue inchieste. Questa scomparsa non può essere casuale: rappresenta una prova evidente di come ci sia stata una regia occulta fin dalle prime ore successive all’omicidio.

Nella scrivania della giornalista furono trovati diversi dossier relativi alla “tangentopoli della cooperazione”, incluso uno specificamente dedicato alla Somalia che documentava “peccati capitali” e “traffici illeciti di ogni tipo”. Tuttavia, il materiale più compromettente, quello che probabilmente aveva motivato l’omicidio, era già scomparso.

Irreperibili i dossier di Ilaria Alpi

Il 24 maggio 2024, nell’anniversario della nascita di Ilaria Alpi, si è tenuto a Roma il convegno “Una stella di nome Ilaria Alpi 1994-2024”, organizzato dall’associazione #NoiNonArchiviamo. Durante l’evento sono emerse nuove testimonianze che confermano come l’omicidio sia stato ordinato per impedire la pubblicazione di un’inchiesta che avrebbe fatto crollare il sistema di traffici illeciti tra Italia e Somalia.

Nel 2025, il ricordo di Ilaria Alpi ha trovato una nuova forma di commemorazione: il 22 marzo le è stata intitolata la scuola primaria dell’istituto comprensivo di Rivergaro e Gossolengo, in provincia di Piacenza.

I depistaggi sistematici e l’insabbiamento delle prove

Il coinvolgimento dei servizi segreti italiani nelle operazioni di depistaggio è emerso chiaramente nel corso degli anni attraverso l’inchiesta “Gladio-bis”, che ha fatto luce sui traffici segreti degli italiani con gruppi somali ostili agli Stati Uniti. Questo aspetto geopolitico ha ulteriormente complicato le indagini.

Fin dalle prime ore successive all’omicidio, le indagini sono state caratterizzate da evidenti anomalie che fanno pensare a un piano preordinato di depistaggio. La scena del crimine non fu adeguatamente isolata e preservata, permettendo la manomissione di prove fondamentali. Numerosi testimoni oculari scomparvero misteriosamente o ritrattarono le loro dichiarazioni iniziali, sotto pressioni mai chiarite.

Per l’avvocato Taormina nessun mistero su quelle morti, nessuna indagine scottante stavano svolgendo a Bosaso Ilaria e Miran, nessun ipotetico traffico di armi e rifiuti tossici o altro avevano scoperto. Questa posizione, sostenuta dalla maggioranza della Commissione parlamentare presieduta dallo stesso Taormina, rappresenta il tentativo più evidente di chiudere il caso senza aprire troppi cassetti.

Il mistero dell’aereo e dei voli segreti

Un altro aspetto particolarmente inquietante del caso riguarda il cosiddetto “giallo dell’aereo”. Dall’analisi delle migliaia di pagine desecretate dal Parlamento sono emersi dettagli su voli misteriosi e movimenti aeroportuali mai chiariti, che sembrano collegati alle attività di intelligence legate al caso Alpi.

I documenti desecretati rivelano un fitto intreccio di relazioni tra servizi segreti, imprenditori senza scrupoli e signori della guerra somali, un sistema che aveva trovato nella presenza italiana in Somalia l’occasione ideale per prosperare. L’omicidio di Alpi e Hrovatin si inserisce in questo contesto come l’eliminazione di due testimoni scomodi che stavano per svelare meccanismi rimasti nell’ombra per anni.

La battaglia infinita per la verità

L’associazione Ilaria Alpi, guidata dalla famiglia della giornalista, continua da oltre tre decenni una battaglia apparentemente impossibile per far emergere la verità. La determinazione dei familiari ha prodotto risultati concreti: diverse Commissioni parlamentari d’inchiesta, la desecretazione di migliaia di documenti, il mantenimento dell’attenzione mediatica sul caso e l’istituzione del Premio Ilaria Alpi per il giornalismo d’inchiesta, attivo dal 1995 al 2005.

L’associazione NoiNonArchiviamo

Tuttavia, nonostante gli sforzi profusi, il caso rimane sostanzialmente irrisolto. A distanza di 31 anni dal duplice omicidio, non sono mai stati identificati con certezza né gli esecutori materiali né, soprattutto, i mandanti del duplice assassinio.

Un caso emblematico dell’Italia che non funziona

Il caso Alpi-Hrovatin è molto più di un semplice fatto di cronaca: è il simbolo di un Paese in cui interessi economici e geopolitici possono prevalere sulla giustizia e sulla ricerca della verità. Ilaria e Miran furono uccisi in un agguato per impedire che divulgassero quanto avevano scoperto ma questa verità, per quanto evidente, non è mai riuscita a tradursi in condanne definitive.

La mancanza di una verità processuale definitiva dopo oltre tre decenni lascia aperte domande fondamentali sui traffici illeciti tra Italia e Somalia negli anni ’90, sul ruolo di apparati statali e intelligence e sulla protezione (scarsa o nulla) di chi cerca di fare luce su affari sporchi che coinvolgono Stati e organizzazioni internazionali.

Il silenzio che ancora oggi avvolge i mandanti dell’omicidio rappresenta una sconfitta per il nostro Paese, che si trova a dover convivere con l’idea – e sembra non avere troppa difficoltà a farlo – che la verità possa essere definitivamente sepolta quando tocca interessi troppo potenti.

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