Il profondo incubo dal quale la Città Eterna degli anni Venti non riesce a svegliarsi. Sette bambine dai 18 mesi a 9 anni vengono orrendamente seviziate. Il Regime fascista porterà alla sbarra Gino Girolimoni che presto diventerà il mostro della Capitale.
Roma – Ci sono vicende che sembrano proprio storie di fantasmi. Storie lontane, bianche e nere, che sono diventate col tempo spauracchi per bambini disobbedienti; bimbi che magari non salgono dalla strada quando le madri al balcone strillano che la cena è pronta. E allora se disobbedisci ecco che arriva l’uomo nero, il mostro, arriva Girolimoni.
La storiaccia in questione sarebbe una perfetta favola di spettri se sette bambine non fossero state torturate e seviziate tra la primavera del 1924 e il tardo inverno del 1927. I corpi martoriati e abusati erano lì, sparsi per gli ancora bucolici anfratti della Roma pre-guerra mondiale. Ma qui è tutto vero, dunque è una storia di mostri, anzi di un mostro, il mostro di Roma.
L’ascesa dell’opprimente regime fascista e la conseguente ombra nera della censura, si intrecciano con la Roma popolare dei piccoli budelli nascosti e delle piazzette del centro storico. Piazza del Fico, Via dei Coronari, il popolo verace e i bambini che giocano soli tra gli stretti vicoli sporchi e ammuffiti dalle mura che si scrostano. Questo è il proscenio di quell’incubo durato 3 anni.
I DELITTI DEL MOSTRO
È il 31 marzo 1924, Caterina Ferroni abita in una casupola di vicolo Strozzi 21. Una modestissima abitazione, un solo vano e un piccolo orto sul retro. È proprio da quel piccolo orticello che intorno alle ore 20 la Ferroni sente degli strani suoni che sembrano lamenti. La donna esce a controllare e nota che i rumori provengono da un cespuglio poco distante. Una bambina in lacrime le si palesa davanti. È seminuda, disperata e tiene strette le sue mutandine nella mano destra. Attorno al collo ha un piccolo fazzoletto colorato, tanto stretto da renderle il volto paonazzo. Lamenti e pianti sono tanto disperati che anche alcuni avventori della vicina trattoria “Bella Napoli” li hanno sentiti. Vittorio Maggiolaro, la moglie Lucia Levati e la signora Filomena, la proprietaria, sono altrettanto allarmati tanto da affacciarsi in strada. La Ferrone, dopo aver liberato la gola della piccola e una volta accortasi della presenza di altri testimoni, li raggiunge e insieme prestano i primi soccorsi alla poverina.
Ma chi è quella bambina paonazza, spaventata, seminuda e col volto rigato dalle lacrime?
Sono le ore 18 dello stesso 31 marzo, giardinetti piazza Cavour di fronte al Palazzo di Giustizia, in romanesco “er palazzaccio“, oggi sede della Cassazione. Emma Giacomin di 7 anni e il fratello di 2 stanno giocando sotto il controllo della bambinaia seduta su una panchina poco distante. La donna chiacchiera con alcune amiche, ma quando posa lo sguardo nel punto in cui i bambini stavano giocando pochi istanti prima, nota che non ci sono più. I richiami disperati a squarciagola non servono.
A piazza Cola di Rienzo, a seicento metri da piazza Cavour, davanti ad un cinema, c’è un bambino che piange. Dice che uno sconosciuto ha accompagnato lui e la sorella a prendere dolci in un caffè, poi lo ha lasciato davanti al cinema e se n’è andato solo con la piccola. In effetti ci sono testimonianze al riguardo. In via Marcantonio Colonna, tra il luogo dell’adescamento e via Strozzi, c’è una drogheria. I dipendenti dicono di aver venduto alcune caramelle ad un signore alto, distinto e snello, un paíno come lo chiamano a Roma. La bambina di via Strozzi si chiama Emma Giacomin, è viva, incubo finito; almeno per quella famiglia, almeno per ora.
È il 5 giugno 1924, il sole estivo scalda i prati ai bordi della ferrovia Roma-Ostia. La basilica di San Paolo si staglia sulla dorata campagna romana, una donna cammina scrutando attentamente il terreno a bordo strada. Si chiama Maria Durante e va a “caccia” di cicoria. La donna cammina parallelamente alle rotaie, quando all’altezza del mai completato cinema “l’Imperiale Ostiense” nota alcuni fogli di giornale sulla scarpata erbosa adiacente ai binari. Incuriosita la Durante si avvicina e nota che sotto ai giornali c’è qualcosa, qualcosa di terribile. C’è il cadavere di una bambina: Bianca Carlieri di 2 anni, detta “biocchetta”. ll Giornale d’Italia del 5 giugno 1924 testualmente scriveva: “Il corpicino maculato di lividure, una piccina di circa tre anni: il viso già roseo schiacciato sul terreno, i braccini levati sopra dal capo biondo e le gambe rattrappite nell’ultimo spasmo della morte violenta“. La scena è straziante. La creatura ha subìto feroci violenze sessuali, gli orifizi coperti di sangue e il collo martoriato dai tentativi di strangolamento. Sulla scena del crimine, come la chiameremo oggi, c’è solo un’impronta di scarpa maschile. Alcuni testimoni riferiranno agli inquirenti di aver visto aggirarsi sospettosamente un uomo elegante dal soprabito grigio, il cappello nero dalla tesa floscia, snello e coi baffetti biondi a spazzola, viso magro e zigomi sporgenti. Stavolta i giornali di regime non possono ignorare la notizia, infatti non lo fanno. E inizia l’incubo del mostro.
Succede ancora il 24 novembre. Sono le 15.30 e Rosina Pelli di 2 anni svanisce nel nulla mentre gioca a nascondino con l’amica Olga di 6, sotto le statue dei santi sopra il colonnato di San Pietro. Passerà alla cronaca come “la bambina del Prataccio” per il luogo dove verrà rinvenuto il corpo straziato della piccola. Infatti il cadavere verrà trovato il giorno dopo intorno alle 7 del mattino da Riccardo Papiri e dalla moglie Apollonia che si stanno dirigendo al forno dove lavorano. Papiri nota nei cespugli, ai lati del sentiero sabbioso, il corpicino senza vita di una bambina. Capelli ricci biondi, camicetta strappata, seminuda e col viso schiacciato a terra. La Polizia trova poco lontano dal corpicino martoriato un asciugamano bianco con le iniziali R.L. ricamate in filo rosso. Di nuovo abusi sessuali, di nuovo quel maledetto fazzoletto attorno al collo. La firma del mostro?
Anche in questo caso ci sono testimoni. Alfredo Giacomini è un operaio che intorno alle ore 16 del 24 novembre sta attraversando il sentiero che costeggia il Prataccio all’incrocio tra Monte Mario e via della Balduina. Il testimone nota un uomo snello, alto, soprabito marrone, cappello nero dalla tesa floscia, che trascina per mano una bambina che si lamenta strattonandolo: “Lassame annà“.
Ci sono anche tre lavandaie al Prataccio e notano, sempre quel pomeriggio, un uomo in lontananza: cappotto scuro, vestito marrone e aspetto da benestante, che si muove nervosamente davanti agli stessi cespugli dove verrà ritrovata la piccola Rosina. Quell’uomo si sta masturbando e non appena si accorge di essere osservato si dilegua.
L’incubo continua. Il 30 maggio 1925, anno del Giubileo, alle 20.30, Elsa Berni di 6 anni esce dalla sua casetta in Porta Castello con un fiasco per riempirlo d’acqua. Dopo pochi minuti la bambina viene avvicinata da un uomo alto, elegante, cappello dalla tesa floscia e dall’accento non romanesco, che si offre di accompagnarla alla fonte Lancisiana. Lo sappiamo grazie ad Anna del Signore, una bambina che, pochi minuti prima, ha evitato l’adescamento da parte dello stesso uomo che ora vede vicino alla piccola Elsa.
Sono 5 del mattino del 31 maggio. Pasquale Scacco, spazzino, si affaccia sul parapetto del Lungo Tevere, poco distante dalla fonte Lancisiana, per prendersi qualche minuto di pausa. Il suo sguardo cade poco distante, sul greto del Tevere dove vede il corpicino insanguinato di Elsa Berni, martoriato e abusato come quello della altre piccole vittime.
Il 6 agosto 1925 tocca a Celeste Tagliaferri di soli 18 mesi che viene rapita addirittura dal suo lettino, nella sua casa in quartiere Borgo a due passi dal Vaticano. Alle ore 15.50 alcuni ragazzi che si trovavano nelle vicinanze dello Scalo Tuscolano vengono attratti da alcune grida provenienti dal canneto a valle della strada. Lì trovano la piccola Celeste seminuda, che strilla a perdifiato distesa per terra con un fazzoletto legato attorno al collo. Sulla scena del crimine la carta di alcune caramelle Torino, le stesse rinvenute nel contesto del delitto Carlieri. un’impronta di scarpa 27,4 cm per 10,9 con suola e punta larga semicircolare, simile ad un’altra trovata sul proscenio dell’omicidio Berni. In tutte le scene del crimine, nonostante la violenza sessuale, non vengono mai rinvenute tracce di sperma.
Il 12 febbraio 1926 intorno alle ore 17, in via dei Coronari, una piccola strada vicina al Santuario della Madonna di Loreto, c’è un uomo alto, snello, elegante con un cappello dalla tesa floscia. I testimoni lo vedono prestare insistenti attenzioni ad un gruppo di bambini. Tra quei bambini ci sono Luisina 9 anni ed Elena di 11 che, nonostante fossero state avvicinate dall’uomo, non si fidano e decidono di non seguirlo. Ci sono altri due tentativi di adescamento in sequenza, stavolta in danno di Vittoria 7 anni e Laura di 10. Le bambine, anche in questo caso, si allarmano e non seguono l’orco. Testimonieranno poi di essere state avvicinate da un uomo dall’accento non romanesco.
In Rione Prati, a pochi minuti da Lungo Tevere, c’è una drogheria. La proprietaria Alba Cappelli nota un uomo che descrive piuttosto alto e magro. Indossa un cappello e porta baffi biondicci a spazzola. La Cappelli si ricorda quell’uomo per il suo strano comportamento. Lo sconosciuto è agitato, sovrappensiero, sembra distratto o che non capisca bene l’italiano, dice la donna. L’uomo compra alcune caramelle, marca Torino, dei cioccolatini e poi se ne va. Poco dopo sempre a Prati, attorno alle 19.30, Elvira Coletti di 6 anni esce di casa, su richiesta della sorella maggiore Francesca, per riempire una bottiglia d’olio da un rivenditore poco distante. Poco distante da casa un uomo elegante la adesca con dolcetti e lusinghe, per poi portarla sul Lungo Tevere Michelangelo. La piccola viene adagiata su un prato poco illuminato dalle candele di un ristorante di lusso ubicato nelle vicinanze. La violenza inizia ma la bambina approfittando della distrazione dello sconosciuto riesce a scappare per poi farsi notare da un cocchiere di botticelle che si trova nei paraggi.
È il 12 marzo 1927 e sono le ore 21 a rione Ponte. Siamo in piazza del Fico e ai gestori di una trattoria sembra strano che una bambina stia lì da sola, col sole già tramontato da un pezzo, seduta di fronte ad una bottega. La bambina si chiama Armanda Leonardi, ha 5 anni e sta aspettando i genitori bottegai che finiscano di lavorare. La piccola è affidata al fratello che tornando in piazza del Fico intorno alle 22 non può che constatare la sparizione della bambina. Il corpo viene ritrovato il giorno successivo da due domestiche in un prato dell’Aventino, vicino il Circo Massimo. Il corpicino giace sotto una coperta a pancia sotto, insanguinato, seviziato e seminudo come al solito con una cintura di cuoio attorno al collo. Sulla scena del crimine vengono rinvenuti alcuni brandelli di carta appartenenti ad una rivista religiosa in lingua inglese.
Il testimone chiave questa volta si chiama Giovanni Massaccesi, ha un’osteria in corso Vittorio Emanuele ed afferma che intorno 19.30 di quel maledetto 12 marzo un avventore alto, snello e con baffi a spazzola gli aveva chiesto un calice di vino con accento veneto. L’uomo cammina mano nella mano con una bambina di circa 5 anni. Il Massaccesi approfitta dell’assenza temporanea dello sconosciuto, che si allontana per comprare dei sigari toscani, per avvicinare la bambina e domandarle se l’uomo dal cappotto scuro e il cappello floscio fosse suo padre. La bambina gli risponde di sì, ma il Massaccesi ricorda di non essere stato convinto dalla risposta.
Indizi sommari e testimonianze vaghe che per 3 anni non portano a nulla. La situazione sociale è tesa. Le violenze del mostro hanno attraversato il periodo Matteotti e la nascita della censura che vieterà quasi immediatamente la divulgazione dei cosiddetti dettagli macabri riguardanti i delitti. Il Duce vuole una testa, il mostro non può fare parte di un’Italia rinata nel e per l’ordine. Gli inquirenti non possono sbagliare.
FINE PRIMA PARTE