Negli anni Sessanta eravamo il terzo produttore mondiale di energia atomica: storia di un’eutanasia energetica dettata dalla politica e non dai referendum popolari.
Roma – Mentre si riaccendono i fari della politica sul nucleare si è tenuta la prima riunione della Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile, convocata al ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica. Giova ricordare, anche se è penoso, come soltanto negli anni Sessanta l’Italia si trovava ai vertici mondiali nella produzione di energia elettrica dall’atomo, addirittura sul podio subito dietro la Gran Bretagna e una potenza industriale come gli Stati Uniti.
Chiedersi come e perché in pochi decenni quello straordinario vantaggio tecnologico, insieme al patrimonio di conoscenze che lo aveva reso possibile, sia stato gettato alle ortiche, contribuendo a consegnare il Paese ad una onerosa dipendenza energetica significa ripercorrere una storia complessa e travagliata che comincia negli anni Cinquanta. E scoprire che sì, è vero, furono gli italiani con due successivi referendum dall’esito inequivocabile a mettere una pietra tombale sull’atomo nostrano, ma non prima che altri interessi, meno espliciti e commendevoli, chiudessero la porta alla grande avventura del nucleare tricolore.
Nel secondo dopoguerra la politica energetica del Belpaese si è spesso identificata con le imprese e l’ampia visione strategica di un solo uomo, Enrico Mattei, il “petroliere senza petrolio”, il formidabile capitano d’industria padre dell’Eni, il colosso del cane a sei zampe che alimentò il boom economico di una nazione soltanto vent’anni prima uscita in macerie dalla guerra. La storia del nostro nucleare non fa eccezione. Diversificare le fonti e i fornitori di energia è stato il mantra dell’industriale marchigiano, la stella polare che segnò il cammino di emancipazione italiano dalle “sette sorelle” del petrolio, a quel tempo le potentissime compagnie anglo-americane, in ossequio al quale cominciarono le trivellazioni in Pianura Padana e si negoziarono concessioni petrolifere in Medio Oriente, disegnando per l’Agip, motore dell’Eni, un autonomo e autorevole ruolo internazionale.
Venne in fretta il giorno in cui a Mattei, lucido visionario dell’energia, gas e petrolio non bastarono più. Nel 1957 il presidente dell’Eni tenne a battesimo Agip Nucleare, azienda che contribuì a posizionare il Paese all’avanguardia nella ricerca e in seguito nella produzione dell’energia derivata dall’atomo. Due anni dopo venne costruito il primo reattore di ricerca a Ispra (Varese), mentre la prima centrale fu inaugurata a Latina (Borgo Sabotino) nel 1963, subito seguita otto mesi più tardi da quella di Sessa Aurunca, vicino a Caserta (Garigliano), e dopo meno di un anno dall’impianto di Trino, in provincia di Vercelli, al momento della sua entrata in funzione il più potente al mondo.
In quegli anni l’attivismo “atomico” di Mattei trovò uno straordinario alleato in Felice Ippolito, scienziato napoletano divenuto segretario generale del Comitato nazionale per le ricerche nucleari (Cnen), ruolo dal quale, in stretto collegamento con il fisico Edoardo Amaldi (l’unico dei cosiddetti “ragazzi di via Panisperna” rimasto in Italia dopo che la scuola guidata da Enrico Fermi si era dissolta) promosse un programma di sviluppo largamente autonomo del nucleare civile.
A testimonianza di come in Italia essere innovatori non è solo un compito difficile ma a volte molto pericoloso, nella prima metà degli anni Sessanta l’avventura imprenditoriale dei due manager pubblici venne bruscamente interrotta. Nel 1963 Mattei trovò la morte in un incidente aereo che soltanto trent’anni più tardi una nuova inchiesta accertò essersi trattato non di guasto tecnico o errore umano ma di un attentato. Ippolito ebbe più fortuna: un anno dopo la morte del collega, l’uomo che non a caso era stato soprannominato “il Mattei dell’atomo” e che avrebbe potuto raccogliere l’eredità del manager scomparso, fu investito da una velenosa campagna stampa avviata dall’allora segretario del Partito Socialdemocratico, e futuro presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat che lo accusava di irregolarità e sperpero di denaro pubblico.
Condannato per peculato ad una pena abnorme di 11 anni – poi ridotta a 5 anni e tre mesi – venne infine graziato dallo stesso Saragat. I fatti contestati erano in gran parte dubbi e di modesta identità, al punto che in molti ritennero allora quel processo una farsa orchestrata per togliere di mezzo Ippolito e stroncare la nascente industria nucleare italiana. Infatti il “caso Ippolito” chiuse il periodo aureo della ricerca e dello sviluppo facendo piazza pulita di tutti i progetti in corso riguardo l’apertura di nuove centrali.
Ippolito, e con lui l’atomo italiano, si trovarono a giocare in quei mesi decisivi per il futuro energetico del Paese l’ingrato ruolo del vaso di coccio posto nel mezzo di una disputa politico-economica ai cui attori poco o nulla interessava il progresso del Paese. Per capire si deve tornare al 1962, quando va a buon fine la nazionalizzazione del settore elettrico, con la riforma che contemporaneamente istituisce Cnen ed Enel (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica) e che assorbe tutte le aziende elettroproduttrici pubbliche e private, come, per esempio, Finelettrica, Sade ed Edison.
E’ un operazione che mal digeriscono le imprese private, orbate del monopolio elettrico, dalle quali i vecchi dirigenti spiccano il volo per atterrare direttamente ai vertici della neonata Enel. Ovviamente non tollerano di dover dividere le risorse con il il Cnen, volendo controllare l’intera filiera energetica. I rapporti tra i due enti si fanno sempre più tesi, la vicenda diventa di dominio pubblico e la stampa comincia ad interessarsene e a registrare l’alacre attivismo del Partito socialdemocratico e del suo segretario Saragat che promette di vigilare personalmente su quella che definisce “ossessione dell’energia atomica” e sullo “sperpero di pubblico denaro”. La battaglia coinvolge anche la Democrazia Cristiana, dilaniata da una faida interna tra le correnti progressiste e quelle conservatrici.
Spettatori interessati quei centri di potere internazionale che guardano con nascente fastidio alla strategia di indipendenza energetica promossa prima da Mattei e in seguito sostenuta da Ippolito, manager che tra l’altro osa sostenere la centralità del pubblico nella modernizzazione italiana. Interessi privati, nazionali e internazionali, convergenti con l’ostilità dei burocrati e sostenuti dalla colpevole miopia della politica, se non complice per lo meno connivente, realizzano il delitto perfetto e condannano il Paese all’irrilevanza energetica.