L’omicidio di Simonetta Cesaroni tra errori investigativi, false piste e un assassino ancora in libertà.
Roma – Il 7 agosto 1990, in un elegante palazzo di via Carlo Poma 2 nel quartiere Della Vittoria a Roma, Simonetta Cesaroni venne brutalmente assassinata con 29 coltellate negli uffici dell’A.I.G. – Associazione Italiana Alberghi per la Gioventù. A oltre trent’anni di distanza, quello che è passato alla storia come “il delitto di via Poma” rimane un giallo, uno dei tanti cold case della cronaca giudiziaria italiana, caratterizzato da una lunga serie di errori investigativi che hanno compromesso per sempre la ricerca della verità.
Una giovane vita spezzata nel momento più bello
Simonetta Cesaroni aveva appena 20 anni quando la sua vita fu spezzata in quel maledetto pomeriggio d’agosto. Nata il 5 novembre 1969, viveva con la famiglia nel quartiere Don Bosco: il padre Claudio, tranviere dell’A.co.tra.l, la madre Anna Di Giambattista, casalinga, e la sorella maggiore Paola, fidanzata con Antonello Barone. Simonetta era legata dal 1988 a Raniero Busco, un ragazzo di quattro anni più grande che abitava nel quartiere Morena.

Nel gennaio 1990 aveva trovato lavoro come segretaria contabile presso la Reli Sas, studio commerciale gestito da Ermanno Bizzocchi e Salvatore Volponi. Dal 19 giugno aveva iniziato anche una collaborazione part-time con l’A.I.G., recandosi negli uffici di via Poma 2 nei pomeriggi di martedì e giovedì, dalle 15:30 alle 19:30. Simonetta era una ragazza molto riservata, non aveva mai parlato ai familiari della posizione esatta degli uffici dell’A.I.G., né delle telefonate anonime provocatorie che aveva ricevuto sul posto di lavoro.
L’ultimo giorno: una morte annunciata?
Il 7 agosto 1990 doveva essere l’ultimo giorno di lavoro prima delle ferie. La mattina, nella sede della Reli Sas, Salvatore Volponi discusse con Simonetta dell’organizzazione delle vacanze, concordando che la ragazza si sarebbe recata nel pomeriggio in via Poma per sbrigare alcune pratiche e che alle 18:20 avrebbe fatto uno squillo per aggiornarlo sui lavori. Volponi sarebbe stato nella tabaccheria che gestiva con la moglie alla stazione Termini.
Alle 15:00 Simonetta uscì di casa insieme alla sorella Paola, che la accompagnò in auto alla stazione metropolitana Subaugusta. Dopo circa quaranta minuti di viaggio, la ragazza arrivò a Lepanto e si diresse verso via Poma, entrando in ufficio intorno alle 16:00. L’ufficio era chiuso al pubblico e Simonetta utilizzò il mazzo di chiavi che le aveva dato Volponi per aprire il portone.

Alle 17:15 fece l’ultima telefonata di cui si ha traccia, contattando Luigina Berrettini dell’ufficio personale dell’A.I.G. per questioni lavorative. La telefonata delle 18:20 a Volponi non arrivò mai. Quando alle 21:30 Simonetta non era ancora rientrata a casa, la famiglia si allarmò e iniziò le ricerche.
La scoperta dell’orrore: una scena del crimine compromessa
Dopo aver contattato Volponi per avere il numero di telefono degli uffici A.I.G. (che lui non conosceva), Paola Cesaroni, accompagnata dal fidanzato Antonello Barone, andò a prelevare Volponi e suo figlio Luca. I quattro si recarono insieme al palazzo di via Poma dove, intorno alle 23:30, si fecero aprire la porta degli uffici dalla moglie del portiere, Giuseppa De Luca.

La scena che si presentò ai loro occhi era agghiacciante: Simonetta giaceva supina sul pavimento di marmo, parzialmente svestita, con il reggiseno allacciato ma calato verso il basso e il top appoggiato sul ventre a coprire le ferite più gravi. Indossava ancora i calzini bianchi, mentre le scarpe da ginnastica erano riposte ordinatamente vicino alla porta. Il corpo presentava 29 ferite da arma da taglio: sei al volto (sopracciglio destro, occhio destro e sinistro), otto sul corpo (seno e ventre), quattordici dal basso ventre al pube.
Elementi inquietanti caratterizzavano la scena: i suoi indumenti (fuseaux sportivi blu, giacca e slip) erano scomparsi, così come molti effetti personali tra cui orecchini, anello, bracciale e girocollo d’oro, mentre l’orologio era ancora al polso. Nessuna traccia delle chiavi dell’ufficio. Nonostante la violenza dell’aggressione, c’erano poche tracce di sangue, con un alone alle spalle della vittima come se qualcuno avesse tentato di pulire una macchia. Non c’erano segni di colluttazione nelle altre stanze e tutto appariva ordinato.
Il primo sopralluogo: errori che condizionarono tutto
Il primo sopralluogo venne effettuato dal vicequestore Sergio Costa, all’epoca in servizio al SISDE e genero del capo della Polizia Vincenzo Parisi. Durante questo intervento venne rinvenuto un pezzo di carta con scritto “CE” e disegnato un pupazzetto a forma di margherita con la scritta “DEAD OK”. Solo nel 2008, durante una trasmissione di “Chi l’ha visto?”, si scoprì che era stato opera di uno degli agenti di polizia intervenuti quella notte, che lo aveva dimenticato lì.
L’autopsia successiva stabilì che la morte era avvenuta tra le 18:00 e le 18:30, causata dalle ferite da taglio inflitte con un’arma bianca a doppio taglio, con lama bitagliente ma non dotata di azione recidente. L’emivolto destro presentava infiltrazioni ecchimotiche, il padiglione auricolare era tumefatto. Non risultavano segni di violenza sessuale, le mani erano pulite con unghie lunghe e intatte, senza tracce di alcol o stupefacenti nell’organismo.
Il cortile dei portieri: il primo mistero
Un elemento cruciale emerse dalle testimonianze: dalle 16:00 alle 20:00 i portieri degli stabili di via Poma 2 si riunivano nel cortile a parlare e mangiare un cocomero. Tutti furono concordi nel riferire che non avevano visto entrare nessuno dall’ingresso principale in quell’orario. Questo dettaglio avrebbe dovuto restringere drasticamente il campo dei sospetti ma le indagini presero subito una direzione sbagliata.
Pietrino Vanacore: il primo capro espiatorio
Pietro Vanacore, detto Pietrino, era portiere dello stabile dal 1986. Cinquantottenne, abitava lì con la seconda moglie Giuseppa De Luca e si occupava anche dell’assistenza all’anziano architetto Cesare Valle, che viveva nella scala B e aveva progettato l’edificio negli anni ’30.

Gli investigatori si concentrarono subito su di lui: dalle testimonianze risultava che non si trovasse con gli altri portieri nel cortile dalle 17:30 alle 18:30, l’orario dell’omicidio. Venne inoltre rinvenuto uno scontrino sospetto: alle 17:25 Vanacore aveva comprato una smerigliatrice angolare dal ferramenta. Altro elemento inquietante: quando alle 22:30 si diresse a casa di Cesare Valle per fornirgli assistenza, Valle dichiarò che era arrivato solo alle 23:00. Questa mezz’ora di discrepanza insospettì ulteriormente gli inquirenti.
Il 10 agosto Vanacore venne fermato e trascorse 26 giorni in carcere. Sui suoi pantaloni furono trovate macchie di sangue che però, a un esame approfondito, risultarono essere sue. Inoltre, se avesse pulito il sangue di Simonetta, i suoi vestiti – indossati per tre giorni consecutivi dal 6 all’8 agosto – sarebbero stati contaminati. Gli accertamenti sul DNA del sangue trovato sulla maniglia della porta lo scagionarono definitivamente: quelle tracce ematiche non erano sue.
Il peso dei sospetti: un suicidio annunciato
Il 26 aprile 1991 le accuse contro Vanacore vennero archiviate ma i sospetti continuarono a gravare su di lui. Nel 2009 venne aperta una seconda indagine ipotizzando che si fosse introdotto nell’appartamento dopo l’omicidio, inquinando la scena del crimine. Il 20 ottobre 2008 venne perquisita la sua casa pugliese a Monacizzo, senza risultati.
Il peso di vent’anni di sospetti si rivelò insostenibile. La notte tra l’8 e il 9 marzo 2010, tre giorni prima di dover deporre al processo contro Raniero Busco, Vanacore si suicidò a Marina di Maruggio. Si legò una fune al collo e si lasciò affogare in un corso d’acqua, lasciando scritto su un cartello: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.

Secondo l’avvocato di Busco: “La morte di Vanacore è troppo vicina alla scadenza processuale per non essere collegata. Lui ha vissuto con rimorso sulla coscienza questa storia, non perché fosse l’autore dell’omicidio ma perché sapeva chi fosse il vero colpevole”. L’8 marzo 2011, dopo un anno di indagini, il caso venne archiviato: Vanacore si era ucciso di spontanea volontà perché non sopportava più l’invadenza del caso nella sua vita privata.
Federico Valle: la pista del falso testimone
Nel marzo 1992 le indagini presero una nuova direzione grazie alla testimonianza di Roland Voller, un austriaco che affermava di conoscere l’assassino. Raccontò di essere entrato in contatto telefonico per caso con Giuliana Ferrara, ex moglie di Raniero Valle e madre di Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare. Secondo Voller, la donna gli aveva confidato che il 7 agosto Federico era andato a trovare il nonno ma era tornato sporco di sangue con un taglio alla mano.

Federico Valle, all’epoca diciottenne, si dichiarò estraneo ai fatti e si sottopose volontariamente al test del DNA, che lo scagionò. Sua madre smentì pubblicamente Voller. Ma il magistrato Catalani non si arrese e ordinò una perizia per individuare cicatrici che potessero testimoniare la difesa di Simonetta. Alcuni esperti sostenevano che il sangue sulla maniglia potesse essere una commistione di quello di Valle e di Simonetta, altri fugarono ogni dubbio, escludendolo.
L’ipotesi investigativa vedeva Vanacore come complice di Valle: i due avrebbero pulito tutto per proteggere il nipote dell’architetto. Un’infermiera ricordava di aver visto Valle con un braccio fasciato nei giorni successivi all’omicidio, e una testimone, Rosaria de Familiis, raccontò di pressioni ricevute dalla madre di Federico per fornire un falso alibi.
Nel giugno 1993 Valle venne prosciolto per insufficienza di prove, decisione confermata dalla Cassazione nel 1995. Roland Voller si rivelò essere un truffatore con contatti nell’alta finanza, diventato informatore della polizia in cambio di favori. Le sue informazioni su via Poma erano completamente false.
Raniero Busco: l’amore che diventa sospetto
Nel 2004 la procura di Roma riaprì le indagini. I carabinieri del RIS di Parma individuarono nel lavatoio condominiale tracce che però non risultarono essere sangue né collegate al delitto. Nel febbraio 2005 venne prelevato il DNA a 30 sospettati, tra cui Raniero Busco, il fidanzato di Simonetta.
Nel settembre 2006 vennero analizzati vari reperti della vittima: fermacapelli, orologio, ombrello, agenda, calzini, corpetto, reggiseno e borsa. Il corpetto e il reggiseno diedero un risultato sorprendente: contenevano DNA di sesso maschile, probabilmente saliva, che corrispondeva solo a quello di Busco. La polizia scientifica prelevò e analizzò due volte il suo DNA: per sei volte emerse il suo profilo biologico su entrambi gli indumenti.
Ma c’era di più. Nel 2008 venne analizzata una traccia di sangue sulla porta della stanza del delitto: conteneva il sangue di Simonetta misto a quello di un uomo. Otto alleli coincidevano con il DNA di Busco, confrontato anche con quello degli altri 29 sospettati risultando incompatibile con tutti.
Il processo: condanna e assoluzione
Nel settembre 2007 Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario. Il 9 novembre 2009 la GUP accolse la richiesta di rinvio a giudizio dopo aver sentito i periti sull’arcata dentaria di Busco e il confronto con il presunto morso al capezzolo di Simonetta. I periti dell’accusa dimostrarono la compatibilità tra i segni del morso e i denti dell’imputato, mentre il consulente della difesa, il dottor Nuzzolese, definì la lesione come un “morso parziale” per il quale non era possibile alcuna attribuzione.
Emergevano anche lacune nell’alibi di Busco per il pomeriggio del 7 agosto 1990. Nel 2005 aveva dichiarato di aver trascorso le ore del delitto riparando un motorino con un amico in un’officina ma quest’ultimo lo smentì: quel giorno era a Frosinone per il funerale di una zia e incontrò Busco solo tra le 19:30 e le 19:45 al suo rientro.
Giuseppa De Luca, la moglie del portiere, aveva testimoniato di aver visto uscire dalla scala B alle 18:00 un giovane alto circa 1,80 metri con un fagotto, pantaloni grigio scuro, camicia verde scuro e cappello con visiera. Inizialmente pensò fosse il ragionier Fabio Forza o Salvatore Sibilia dell’A.I.G. ma Forza era in vacanza in Turchia e Sibilia a casa con la moglie.
Il 26 gennaio 2011 Busco venne condannato a 24 anni di reclusione in primo grado. Ma il 27 aprile 2012, in appello, venne assolto con formula piena: le tracce di DNA furono ritenute circostanziali e compatibili con residui che avrebbero potuto resistere a un lavaggio blando della biancheria, mentre il presunto morso si rivelò essere un livido di altro tipo. Il 26 febbraio 2014 la Cassazione confermò definitivamente l’assoluzione.
Francesco Caracciolo di Sarno: il mistero delle telefonate
Nel marzo 2022 la procura di Roma riaprì nuovamente le indagini puntando su Francesco Caracciolo di Sarno, presidente dell’A.I.G. I sospetti si basavano sulla collocazione temporale delle telefonate con cui sarebbe stato informato della morte di Simonetta e sulla credibilità del suo alibi.
Giuseppe Macinati, figlio del fattore dell’avvocato, rivelò che il 7 agosto qualcuno telefonò dagli Ostelli della gioventù comunicando la morte di una persona. Le telefonate arrivarono tra le 17:30 e le 20:30, quando il padre era fuori casa, quindi almeno tre ore prima della scoperta del corpo da parte della polizia.
Inoltre, secondo un’informativa della DIGOS del 1990, la portiera Bianca Limongiello aveva riferito di aver visto Caracciolo di Sarno uscire dal palazzo per farvi ritorno nell’ora dell’omicidio, affannato e con un pacco mal avvolto. La donna si era detta disposta a riferire tutto agli inquirenti ma non fu mai sentita. Quando venne interrogata nel 2015, smentì l’informativa tranne per l’orario di rientro verso le 18:00, in compagnia di un uomo mai visto prima.
Mario Vanacore: l’ultima pista
Nel dicembre 2023 un articolo di Repubblica rivelò che i Carabinieri avevano trasmesso alla Procura un’informativa contro Mario Vanacore, figlio del portiere Pietrino. Secondo gli agenti, Mario sarebbe salito negli uffici per fare telefonate interurbane verso Torino, dove viveva, imbattendosi in Simonetta. Dopo un tentativo di approccio sessuale respinto con sdegno, la ragazza lo avrebbe colpito con un tagliacarte. Ferito e furioso, l’uomo avrebbe massacrato la ragazza, telefonando poi al padre e alla matrigna per farsi aiutare a ripulire la scena.

Mario Vanacore smentì tutto, affermando di non aver mai visto Simonetta in vita, se non quando era già morta nell’ufficio. Il PM Gianfederica Dito chiese l’archiviazione, definendo la vicenda “suggestiva ma priva di riscontri”.
Le piste alternative: dai servizi segreti al Videotel
Nel corso degli anni sono emerse numerose teorie alternative. Il magistrato Lupacchini e il giornalista Parisi ipotizzarono che l’omicidio fosse l’ultimo di una serie compiuta da un serial killer attivo a Roma tra il 1982 e il 1990, collegandolo anche ai casi di Katy Skerl, Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi.

La pista del Videotel, suggerita da una lettera anonima del 1995, ipotizzava che Simonetta avesse conosciuto l’assassino attraverso questa rete di comunicazione informatica. Ma si scoprì che il computer dell’ufficio era solo di videoscrittura e Simonetta non aveva computer a casa.
Altre teorie collegavano il delitto a presunti segreti dell’A.I.G., operazioni illecite dei servizi segreti in Somalia, o addirittura alla banda della Magliana con la complicità del Vaticano. Tutte queste piste si rivelarono infondate o prive di riscontri concreti.
Via Poma 2 aveva già conosciuto la morte: nel 1984 vi era stata trovata Renata Moscatelli, un’anziana donna benestante soffocata con un cuscino, nel cui appartamento non era mai stato trovato segno di scasso. Anche quell’omicidio non fu mai risolto.
Il presente: una verità che non arriva
Il 13 dicembre 2023 la procura di Roma chiese l’archiviazione della nuova inchiesta ma il 20 dicembre 2024 la Gip Giulia Arcieri respinse la richiesta disponendo nuovi accertamenti. Il delitto di via Poma continua così a rappresentare una ferita aperta nella giustizia italiana.
Dopo 35 anni rimangono irrisolti tutti gli aspetti fondamentali: oltre all’identità dell’assassino, non si conosce il movente, l’arma del delitto, l’orario esatto della morte e la presenza di altre persone nel palazzo quel pomeriggio. Gli errori delle prime indagini, le false piste, le testimonianze contraddittorie e i depistaggi hanno compromesso per sempre la ricerca della verità.