Eppure un pentito aveva rivelato i nomi dei due sicari che hanno freddato Massimiliano Carbone, ucciso perché rivendicava la paternità del figlio nato da una donna sposata. Sedici anni di colpevole silenzio
LOCRI (Reggio Calabria) – I due killer che sedici anni fa uccisero il giovane imprenditore Massimiliano Carbone di 30 anni, rimangono ignoti. La mamma Liliana Esposito, il fratello Davide e la sorella Irene, continuano a chiedere giustizia. Massimiliano, sei anni prima di morire, aveva intrecciato un rapporto sentimentale con una donna sposata più grande di lui. Dalla loro relazione erano nato un bambino la cui paternità sarebbe stata attribuita, in un primo tempo, al marito della donna facendo passare tutto sotto silenzio nonostante in paese tutti sapessero della vicenda.
Massimiliano Carbone, però, aveva deciso di assumersi le proprie responsabilità decidendo di riconoscere il bimbo nonostante la madre non fosse d’accordo, soprattutto per evitare lo scandalo. Alle ulteriori resistenze della donna, Massimiliano consultava un avvocato affinché procedesse al riconoscimento del figlio, già di 5 anni, per le vie legali. A qualcuno la cosa aveva dato molto fastidio e il clamore che ne poteva derivare avrebbe potuto nuocere alla reputazione di una certa famiglia, vicina ad ambienti malavitosi. Così il 24 settembre del 2004, nel cortile di casa, Massimiliano Carbone veniva centrato al fianco da due colpi di lupara, mentre era di ritorno da una partita di calcetto con il fratello Davide.
Il giovane veniva trasportato in ospedale e sottoposto ad un delicatissimo intervento chirurgico che, dopo cinque giorni di agonia, non lo strapperà alla morte. Massimiliano morirà fra le braccia della madre a cui chiederà di occuparsi del nipotino. Le indagini, da subito, si erano dimostrate lacunose e frammentarie:
”… Nell’eseguire l’autopsia hanno fatto a pezzi mio figlio – racconta mamma Liliana – nessuno aveva pensato di prelevare il Dna. Un’inadempienza, una sottovalutazione che non perdonerò mai. Il primo test di paternità che certificava che quel bambino concepito il 24 settembre 1998 e nato il 4 giugno 1999 fosse figlio di Massimiliano l’ho fornito io. Ho chiesto che venisse messo agli atti il 29 aprile 2005 durante un confronto stabilito dal Pm Rosanna Sgueglia tra me e una donna di Locri, madre del figlio di Massimiliano Carbone. La stessa donna il 7 novembre del 2006, davanti al procuratore dei Minori, Carlo Macrì, dichiarava che con Massimiliano Carbone aveva avuto solo qualche telefonata e che si era pentita di non averlo denunciato per molestie telefoniche…”.
La paternità era stata provata al 100% da uno dei più importanti laboratori di genetica italiani ma per il solo fatto di aver spiattellato in faccia a tutti quella faccenda così delicata, Liliana Esposito è stata processata per dieci lunghi anni con l’assurda accusa di diffamazione. Ma c’è di più:
”…Aver denunciato, non aver abbassato la testa e tenuto la bocca chiusa – aggiunge Liliana – ha permesso che venissi additata come pazza. E poi c’era il valore aggiunto: non ero un uomo, non ero un politico, non ero una commerciante, non ero una professionista affermata, ero solo una maestra elementare povera. Che diritto avevo di chiedere giustizia? Me ne dovevo stare zitta. Se veramente mi bruciava il cuore avrei dovuto piangere in un angolo e basta. Invece ho avuto il coraggio di mettere la testa fuori dal recinto. Sono stata quella che ha osato svelare il velo di Maya, che ha osato inchiodare alle proprie responsabilità chi avrebbe dovuto farsi un punto d’onore nella risoluzione di un caso semplicissimo ma che è diventato il più intricato del territorio…”.
Il figlio di Massimiliano, secondo la nonna, avrebbe avuto il diritto di sapere la verità e questo non solo per giustizia nei riguardi della vittima ma anche di quel bambino, orfano bianco, a cui è stato ucciso il padre. Insomma le cose sono andate come spesso vanno in questa parte della Calabria: i due assassini sono rimasti impuniti. Nel 2017, il pentito Domenico Agresta, rivelava di aver sentito da un suo compagno di cella che a sparare a Massimiliano erano stati A.C. e P.C. perché il giovane aveva avuto una relazione con una donna vicina ai Cordì, locale famiglia di ‘ndrangheta. Da allora è calato di nuovo il silenzio.