La consegna di un libro misterioso alla sorella della vittima e le tante incongruenze rilevate su orari della morte del detenuto, ferite sul corpo, e le dichiarazioni “ballerine” dei testimoni potrebbero indurre a nuove indagini.
ORISTANO – Per la magistratura come per l’amministrazione penitenziaria il caso è chiuso: il detenuto Stefano Dal Corso, 42 anni, si è suicidato. Ma la famiglia non ci sta anche sulla scorta degli ultimi accadimenti che hanno visto la sorella della vittima, Marisa Dal Corso, protagonista della strana consegna di un libro consegnatole a casa da due finti fattorini di Amazon l’8 marzo scorso. A pagina 7 del volume firmato da una mistica austriaca e indirizzato alla vittima, proprio sull’indice, erano evidenziate a penna, con un rettangolo, le parole “La confessione” e “La morte”. Atto intimidatorio o che altro?
Dunque il caso della morte di Stefano ritorna prepotentemente alla ribalta altro non fosse per l’ennesima stranezza che grava sulla vicenda chiusa, senza autopsia, dalla Procura di Oristano come impiccagione da suicidio in cella. Ma ricordiamo i fatti.
Il 4 ottobre dell’anno scorso il recluso Stefano Dal Corso, tossicodipendente, condannato per tentata estorsione, dal carcere romano di Rebibbia veniva tradotto a quello di Casa Massima di Oristano e assegnato alla cella n.8. L’uomo si era presentato dalla psicologa della casa circondariale in buone condizioni fisiche e psichiche. Davanti alla professionista si era dimostrato ben disposto a collaborare e aveva manifestato la volontà di uscire definitivamente dal tunnel della droga negando eventuali intenti autolesivi. Insomma nonostante la detenzione e la pressione psicologica non aveva certo intenzione di ammazzarsi tanto da confessare alla ex compagna, durante un incontro in parlatorio assieme alla figlia di 7 anni, di voler ricominciare una nuova vita.
Stefano, giorni dopo, scrive anche ai suoi congiunti parlando di progetti per il futuro con ferma intenzione di trovarsi un lavoro e mettere su famiglia. Chi la ragiona cosi è senza dubbio lontano da un gesto estremo, almeno in apparenza. Ma il 12 ottobre, il giorno prima di ritornare in cella a Roma ed a pochi mesi dalla sua scarcerazione, Stefano veniva ritrovato cadavere. A rinvenirlo esanime e appeso ad una corda alle grate della finestra è stato un agente penitenziario che allertava subito i colleghi ed il medico del penitenziario. Quest’ultimo attestava il decesso del detenuto per “rottura del collo” dunque si trattava di suicidio ed il caso veniva archiviato dopo l’audizione di alcuni detenuti, infermieri e degli stessi agenti.
Nulla di alternativo per il Pm Armando Mammone, tanto che non occorre nemmeno eseguire l’esame autoptico. Ma come si possono stabilire le cause di una morte senza autopsia? E’ sufficiente la sola ricognizione cadaverica? Poi ci sarebbero alcune incongruenze fra le dichiarazioni dei testimoni: Il medico di turno in infermeria riferisce di aver tentato le manovre di rianimazione su Stefano alle 14.40. Il sanitario si dice certo dell’orario perché proprio prima del suo intervento aveva visto l’orologio.
L’agente penitenziario che aveva trovato Stefano ormai deceduto una volta entrato in cella riferiva al Pm di aver trovato il corpo senza vita del detenuto alle 14.40, poi rettificava alle 14.50, evidenziando che dieci minuti prima l’uomo era ancora vivo. Ma non basta: la psicologa della struttura carceraria si dice assolutamente certa che fossero le 14 in punto. Fra i carcerati è quasi il caos: alcune celle vicine a quella dove si è consumata la tragedia erano piene ma i testimoni le ricordano vuote, salvo poi dichiarare il contrario. Insomma grande confusione e nessuna certezza.
E che dire dell’ematoma ad un braccio incompatibile con un suicidio? E del letto ritrovato perfettamente in ordine? Gli inquirenti attestano che Stefano avrebbe realizzato il cappio tagliando le lenzuola con una lama. La stoffa con la quale è stato fatto il cordame non sarebbe mai stata nella disponibilità del legale di fiducia della famiglia Dal Corso, l’avvocato Armida Decina:
”Sono tante le incongruenze che ci portano ad avere dei dubbi sulla reale dinamica di quello che è accaduto il 12 ottobre – dice la penalista – avrebbero dovuto, secondo noi, imporre alla Procura di dover effettuare un’autopsia perché era l’unico modo per fugare ogni dubbio”. Anche Marisa Dal Corso, sorella della vittima, invoca l’esame necroscopico: ”Voglio la verità, mio fratello non si è ammazzato”.