Guai a dare Trump per sconfitto. Potrebbe sfidare Biden anche da condannato

Sepolto dalle imputazioni, il tycoon si presenta come una vittima del sistema. E funziona. Gli americani vorrebbero cambiare, ma dovranno farsi bastare i due vecchi rivali.

Washington  – Trump non molla. Malgrado la montagna di accuse che lo hanno seppellito e la sequela di imbarazzanti processi che lo attendono, il tycoon newyorchese rilancia la sua candidatura alla Casa Bianca. Da parte sua il sonnacchioso Biden, presidente in carica, ha già annunciato da tempo di voler tentare il bis. Dovrà farsene una ragione la schiacciante e politicamente trasversale maggioranza di americani che secondo i sondaggi vorrebbe evitare di scegliere ancora tra i due candidati senescenti, in una sfida presidenziale mai così agé, capace di mandare in frantumi il mito dell’America paese giovane dallo sguardo proiettato costantemente al futuro. Tanto Biden quanto Trump il loro di futuro lo hanno largamente alle spalle: il presidente uscente alla data delle prossime elezioni, novembre 2024, spegnerà 82 candeline, lo sfidante ne avrà già compiuti 78.

Donald Trump contro Joe Biden

Eppure tanto i sondaggi sulla propensione al voto, quanto i movimenti interni ai due principali schieramenti politici statunitensi, ad oggi non fanno presagire scenari diversi, la sfida per la Casa Bianca dovrebbe essere l’esatta riproposizione di quella andata in scena nel 2020. Magari turandosi il naso gli elettori saranno chiamati a farsi bastare quello che passa il convento a stelle e strisce. Il mondo d’altronde non aspetta.

L’invasione russa dell’Ucraina ha innescato un sommovimento geopolitico che ha come bersaglio proprio Washington e la sua scricchiolante egemonia, da molti giudicata anacronistica e da archiviare. A partire dai nuovi Brics, il gruppo di Paesi delle economie emergenti (Brasile, Russia, India Cina e Sudafrica) che dal gennaio dell’anno prossimo accoglieranno tra le loro fila anche Argentina, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati arabi uniti e Arabia Saudita, un piano di ampliamento che li porterà a rappresentare 4 miliardi di persone e il 37% del Pil mondiale.

La sfida allo strapotere del vecchio zio Sam sta tutta nelle parole del presidente brasiliano Lula:

“Vogliamo creare una valuta nuova uguale in tutto il gruppo, per aumentare le nostre opzioni per i pagamenti internazionali, così da ridurre le nostre vulnerabilità”. Che ci riescano è tutto da vedere ma il progetto dei Brics nell’ultimo incontro tenutosi a Johannesburg è chiaramente rivolto a cambiare gli equilibri politici internazionali, a ridimensionare il peso economico del dollaro nelle transazioni e di conseguenza quello politico degli Stati Uniti.

Elezioni americane 2024

Anche per questo le prossime elezioni presidenziali americane del 2024 assumono un’importanza vitale. Chiamati a raccogliere il guanto di sfida, dopo aver abdicato parzialmente al ruolo di potenza unica e chiaramente sbagliato alcune scelte degli ultimi vent’anni (Iraq e Afghanistan tra le altre), gli Stati Uniti hanno bisogno più che mai di eleggere un comandante in capo pienamente legittimato dal voto popolare, con l’autorevolezza e la visione necessaria a ribadire la centralità nello scacchiere internazionale della superpotenza, la stessa che in molti si augurano diventi ben presto ex.

Biden non sembrerebbe rispondere a questo identikit. Sempre più spesso l’attuale presidente denuncia l’incedere dell’età, collezionando gaffes e infarcendo i propri discorsi di imbarazzanti silenzi. Non sempre si riesce a capire quello che dice, appare lontano anni luce dall’appeal mediatico del suo predecessore democratico Barak Obama. Eppure quello che può sembrare un chiaro handicap – un candidato alla Casa Bianca ostaggio dell’urticante ironia della propaganda conservatrice – potrebbe rivelarsi una fortuna per i democratici. Perché nonostante i suoi passaggi a vuoto, Biden ha saputo domare l’inflazione, finanziato il piano di infrastrutture del Green New Deal, stanziato 52 miliardi per riportare in America la produzione di semiconduttori e microchip. Soprattutto, non ha perso come tutti preconizzavano le elezioni di mid-term. E’ una vecchia volpe della politica che conosce il consenso, che ha già vinto e sa come si fa. Impensabile, anche per consumata tradizione americana, che venga sfidato dal suo stesso partito.

Sull’altra sponda Donald Trump, che certo non è un giovincello, non sembra dare segni di cedimento. Tutt’altro. L’ex presidente dai capelli di fata si sente già in corsa per la Casa Bianca è ha di fatto aperto la campagna elettorale trasformando la mug shot, la foto segnaletica scattata nella prigione di Fulton, Georgia, dove il 25 agosto scorso è stato arrestato, schedato e subito rilasciato su cauzione, in un virale manifesto elettorale. Vi compare con il ghigno minaccioso di chi promette battaglia, per nulla propenso a piegarsi a quella che ritiene essere una montatura giudiziaria creata a tavolino dai suoi avversari democratici collusi con la magistratura. Convinto che ad ogni nuova imputazione salga il suo indice di gradimento tra gli elettori e soprattutto il saldo della sua raccolta fondi, Donald ha già reso esplicito quale sarà il mantra della sua campagna: dipingersi come vittima di quell’establishment liberal che dai suadenti salotti borghesi di New York, Boston e San Francisco, vorrebbe impedire a lui di candidarsi e insegnare a vivere all’America profonda.

Vittima o carnefice che sia, resta il fatto che l’ex presidente deve rispondere di imputazioni gravi come per i fatti di Capitol Hill (l’assalto al Congresso), la sottrazione di documenti classificati ritrovati nella sua villa di Mar-a-Lago e il tentativo di influenzare il risultato elettorale in Georgia. Guai però a darlo per finito prima del tempo. In America non esiste come da noi (per quanto ancora?) una legge Severino che impedisce agli imputati di candidarsi e la presunzione di innocenza è un principio giuridico solido e rispettato. La sua base elettorale, inoltre, è ormai certa del complotto a suo carico e tenderà a interpretare ogni altra notizia giudiziaria che lo riguarda attraverso la lente deformata di questa convinzione.

Quel che appare sicuro è che Donald non avrà tempo di annoiarsi. A partire dalla prossima primavera agli impegni elettorali dovrà affiancare le udienze dei processi, anche se è complicato capire quando andranno a sentenza. Potrebbero volerci anni, come è altrettanto possibile che si presenti alle lezioni già condannato in primo grado senza che nessuna norma gli impedisca di concorrere. Di certo non deve temere il fuoco amico. L’avvento dell’uragano Trump ha cambiato nel profondo l’anima del partito repubblicano, dove alligna uno zoccolo duro di sostenitori dell’ex presidente che nessun altro candidato Gop è in grado di scalzare. Basta guardare a quello che è accaduto nel primo dibattito tv tra gli altri aspiranti (otto) alla candidatura repubblicana, costretti a raccogliere le briciole lasciate da Trump, saldo al comando con oltre il 53% delle preferenze nel suo campo. Se i giudici non si sbrigano, rischiano di dover processare il prossimo inquilino della Casa Bianca.

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