I provvedimenti hanno finito per azzoppare l’economia europea più di quanto non abbiano creato problemi al nuovo zar.
Qualcuno a inizio conflitto, quando l’Europa aveva scelto di marciare compatta a fianco di Kiev – e agli ordini degli Usa – aveva paventato il possibile effetto boomerang dei progressivi pacchetti di sanzioni contro Mosca adottati da Bruxelles. Poco ci manca che i reprobi, speditamente arruolati tra gli invisi filo-putiniani, finissero al confino. Oggi bisognerebbe chiedergli scusa.
Mentre l’Europa arranca sul filo della recessione – Germania compresa – e la cura da cavallo contro l’inflazione innescata dai prezzi di gas e petrolio, giocata a colpi di rialzo del costo del denaro, ha rischiato di uccidere il paziente – le rate dei mutui a tasso variabile in Italia si mangiano il 60% di molti bilanci familiari – si scopre che le sanzioni in realtà hanno fatto un baffo al nuovo zar che, semplicemente, ha trovato il modo di aggirarle.
Ogni giorno, infatti, arrivano nuove prove dei trucchi architettati da Mosca per rendere vani gli sforzi dell’Europa di isolare l’orso russo e privarlo delle finanze per alimentare il conflitto. E ad essere bellamente buggerate non sono solo le sanzioni sui combustibili fossili, ma pure tutte quelle imposte su quei beni che in teoria l’Occidente avrebbe voluto impedire alle sue aziende di esportare nella Federazione Russa. In Olanda, ad esempio, stando ai dati della Statistics Netherlands (CBS) sull’export, la vendita diretta di prodotti verso la Russia è diminuita dopo l’introduzione delle sanzioni, ma allo stesso tempo, è aumentata significativamente quella verso la Turchia.
Nel Paese guidato da Erdogan, infatti, tra aprile e giugno di quest’anno è arrivato oltre il 90% di merci in più rispetto a due anni prima, parlando di beni sottoposti a sanzioni dalle autorità dell’Aja. Prodotti come macchinari da ufficio, calcolatrici, registratori di cassa, ma anche autobus e camion, fabbricati nei Paesi Bassi e venduti in Turchia sono saliti dal 3,5% al 10%.
Insomma c’è qualche Paese “canaglia – e non è solo la Turchia – che si presta volentieri a fare da intermediario tra i produttori occidentali e la Russia di Putin rendendo vani gli sforzi di Bruxelles. Non solo, Mosca ha delocalizzato la produzione di tecnologia, attrezzature e altri beni di cui ha bisogno per le sue forze armate, facendo affidamento su fornitori di altri paesi per acquisire questi materiali.
Ma ad aver clamorosamente fallito è stata la madre di tutte le sanzioni, quella contro il petrolio di Putin. Le esportazioni russe di greggio si apprestano a toccare il massimo degli ultimi quattro mesi. Se si sommano i barili di greggio a quelli di prodotti raffinati, la media dell’export di Mosca a livello complessivo sale a 5,64 milioni di barili al giorno, il livello più alto da giugno, sebbene ancora dietro di 280mila barili rispetto ai livelli prebellici. Numeri che si sono riverberati positivamente sulle casse statali.
Grazie alla flotta “ombra” di petroliere russe, ai trucchi sui prezzi di spedizione gonfiati, al ruolo dominante di Mosca nelle decisioni dell’Opec sui tagli alla produzione per manipolare il mercato globale, e alla sostanziale impossibilità di verificare il reale costo di carico del greggio russo, Putin è riuscito a limitare i danni collaterali che le sanzioni avrebbero dovuto produrre.
Bruxelles e Washington promettono fuoco e fiamme contro Paesi e aziende che si prestano alle triangolazioni di Mosca. L’Europa si appresta a varare il dodicesimo pacchetto di sanzioni, ma la sensazione è che tanto l’Europa quanto gli Usa si trovino sempre un passo indietro rispetto a Mosca.