Essere NEET è una scelta: i giovani in eterna attesa del lavoro che desiderano

Sui social aumentano i ragazzi della Generazione Z, nati nella seconda metà degli anni ’90, che decidono di restare senza arte né parte.

Roma – La libertà di non studiare, né di seguire percorsi di formazione. In Italia negli ultimi anni è emerso un fenomeno particolare del mercato del lavoro. Ovvero la presenza di un numero consistente di giovani senza arte né parte, come si soleva dire una volta, che né studiano e né seguono percorso formativi per essere avviati al lavoro. Sono i famigerati NEET (Not in Education, Employment or Training), un acronimo, ormai diventato di dominio pubblico. Sui social stanno diventando numerosi, i giovani della Generazione Z (i nati nella seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso e il primo decennio del nuovo millennio) che per scelta decidono di diventare NEET. Malgrado le difficoltà del mercato del lavoro e il caro-vita, sono propensi a cogliere l’occasione lavorativa adatta, piuttosto che accontentarsi del primo lavoro che capita.

La disoccupazione mondiale, secondo i dati diffusi dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), un’agenzia specializzata dell’ONU che compie studi e ricerche sul mondo del lavoro, ha raggiunto i 211 milioni. Per quanto riguarda la Generazione Z, i NEET sono cresciuti a causa della pandemia, durante la quale i giovani sono stati i più colpiti dalla disoccupazione. Inoltre hanno dovuto interrompere gli studi per le tante sospensioni, sia scolastiche che per la formazione professionale. Il rapporto dell’ILO ha evidenziato che, attualmente, ci sono circa 289 milioni di giovani che non stanno lavorando e neppure si stanno aggiornando professionalmente in un percorso formativo. In questo modo, oltre al rischio di sperperare potenziali risorse umane, per i giovani sarà ancora più complicato inserirsi in un prossimo futuro nel mercato del lavoro. Ma in questa marea numerica, emerge un numero rilevante di persone che hanno deciso di aspettare e diventare un NEET.

Il fatto che tra i giovani si sta diffondendo la sostanziale priorità della qualità della professione e della sua conciliazione con la vita privata, è una caratteristica che sta emergendo in molte ricerche socio-economiche. A conferma che sta cambiando la scala dei valori nell’approccio al lavoro. Una certa narrazione ha definito i NEET come fannulloni, senza prospettive e speranze. Ma lo si può essere per scelta, capovolgendo la prospettiva. Quindi non una condizione da deprecare, ma uno spazio di attesa, utile a stimolare la riflessione. Grazie ai social, inoltre, sta crescendo quello che è stato definito “attivismo anti-corporativo”. Si tratta di una forte operosità comunicativa soprattutto nei confronti delle grandi imprese private, le cui attività-secondo gli attivisti-sono dannose per il bene del processo pubblico e democratico. In questa visione, le aziende vengono viste come strutture dedite alla prevaricazione dei dipendenti, perché la loro priorità non è il benessere del lavoratore ma il profitto.

Si è diffusa, quindi, un’avversione conclamata verso certi obblighi di ufficio e dinamiche lavorative, fatti di incontri che sembrano durare un’eternità e riunioni che si succedono una dopo l’altra come un serial televisivo. Come al solito, su temi come questi, ci si polarizza. Alcuni studiosi ritengono che restare disoccupati per un lungo periodo produce effetti deleteri. Altri, al contrario, sono del parere che la pausa di riflessione provoca conseguenze positive. Il motivo della scelta di essere un NEET può essere spiegato dal fatto che i più giovani, avendo già attraversato momenti di incertezza economica, sono più orientati a scegliere un lavoro che offra gratificazioni personali. Un modo, quindi, per esternare una percezione diversa del lavoro da parte della Generazione Z. A conferma che le generalizzazioni e le etichette, soprattutto, in una società complessa come la nostra, spesso, sono fuorvianti, e danno interpretazioni distorte, facendo prendere lucciole per lanterne!

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