Dieci anni dopo la misteriosa sparizione del giovane affetto da autismo la battaglia della sua famiglia prosegue con determinazione. Una vicenda intrisa di mistero e responsabilità.
Roma – Dieci anni fa la Città Eterna inghiottì Daniele Potenzoni. Un ragazzo di 36 anni, fragile e sensibile, sparì nel nulla una mattina di giugno del 2015, nel cuore del caos capitolino. Da quel giorno il suo nome è rimasto sospeso nel silenzio. Nessun indizio concreto, nessun avvistamento credibile, neanche un dettaglio utile a ricostruire esattamente il percorso compiuto prima di dileguarsi improvvisamente.
La mattina della scomparsa
Daniele viveva a Pantigliate, piccolo comune vicino Milano. Affetto da autismo, con un passato segnato da un incidente che gli aveva lasciato il setto nasale deviato, era un ragazzo mite, dalla famiglia presente e assistito dal centro diurno della ASL di Melegnano. Lì, come tanti altri pazienti, cercava di plasmarsi una propria forma di equilibrio che gli permettesse di vivere nella maniera migliore.

Il 9 giugno 2015 era partito per un breve viaggio a Roma con altri ospiti del centro. Una gita programmata, con pernotto in un bed & breakfast nei pressi della stazione Termini e la partecipazione all’udienza di Papa Francesco in Vaticano come momento culminante. Un’occasione pensata per regalare ai ragazzi un’esperienza di vita da ricordare. Ma il 10 giugno, qualcosa andò storto.
La mattina il gruppo accompagnato da due assistenti del sodalizio di assistenza scendeva alla metropolitana di Termini per prendere la linea A, direzione Ottaviano. La banchina era parecchio affollata e i vagoni pieni. Dalla bocca di una delle accompagnatrici del gruppo si levò un ordine a cui tutti avrebbero dovuto obbedire: “Entrate!” Un istante dopo il contrordine: “Fermatevi, troppo affollato!” In quell’attimo di confusione, Daniele si infilò nel primo convoglio. Gli altri no. Le porte si chiusero e il treno riprese la sua corsa. Da quel momento, di Daniele si perse ogni traccia.
La rabbia e le inutili ricerche
Le ricerche partirono immediatamente e si estesero in ogni direzione: dai sotterranei, ai terminali delle linee A e B della metropolitana, nel timore che Daniele non avesse mai varcato l’uscita. E poi all’esterno, nelle stazioni periferiche, nei parchi pubblici, negli ospedali, nei dormitori per senzatetto, persino nei campi nomadi, nell’angoscia che qualcuno potesse averlo preso di mira. Ma niente. Silenzio. Dopo le prime settimane frenetiche, l’interesse per il caso andò scemando sempre di più, fino a perdersi tra le ultime colonne dei quotidiani locali. Le indagini si dissiparono tra ipotesi mai verificate e segnalazioni inconsistenti. Nulla di concreto. Non un oggetto personale, non un’immagine di videosorveglianza chiara, non un passo registrato. Il vuoto.

Francesco Potenzoni, padre di Daniele, non si è mai rassegnato. Ex operaio, oggi pensionato, continua a cercare verità e giustizia. Secondo l’uomo ogni anniversario è un’occasione per ricordare che il figlio esiste ancora, da qualche parte, anche solo nel pensiero ostinato della sua famiglia. Franco non ha mai accettato il silenzio delle istituzioni, che accusa apertamente: “Se fosse stato figlio di un ministro, lo avrebbero cercato sul serio. Ma noi siamo gente semplice. E lo Stato ci ha lasciati soli”.
Epilogo?
Nel decimo anniversario della scomparsa, Franco ha scritto una lettera aperta a suo figlio. Parole cariche d’amore, di speranza e di dolore. Parole che raccontano un padre che non dimentica e che chiede solo di poter riabbracciare il giovane, o almeno sapere la verità. Franco chiude così la sua lettera piena di rabbia e speranza: “Non pensare che ti abbiamo dimenticato, ti cercheremo sempre, con l’aiuto del Signore… Un forte abbraccio, figlio mio...”

La storia di Daniele è un enigma irrisolto, un mistero fitto che Roma ha sepolto nel frastuono delle sue giornate. Ma per chi lo ama, Daniele non è solo un caso, né un nome su una lista di persone scomparse. È un figlio, un fratello, una persona. E fino a quando non ci sarà chiarezza, questa storia resterà una ferita aperta nel cuore di chi non smette di cercare.