88 vittime al giorno, 1 donna ammazzata ogni quarto d’ora. Una mattanza che deve finire. Il Codice Rosso è solo un passo avanti
La violenza contro le donne è un grave piaga sociale, ma il fenomeno è ancora in parte sommerso a causa dell’elevata percentuale di donne che, per vergogna, per paura delle conseguenze e anche per timore di non essere credute, non denunciano, non cercano aiuto e non parlano degli abusi subiti. Così facendo creano intorno a loro un circolo vizioso, che impedisce siano compiute le azioni necessarie per aiutarle a uscire dalla spirale della violenza.
Nella stragrande maggioranza dei casi l’aggressore è all’interno delle omertose mura domestiche, o comunque di una relazione intima. La violenza di genere è una questione complessa che non conosce, geografia, ceto, cultura, confini. I dati, aggiornati al 2019, forniti dalla Polizia di Stato, sono impressionanti. La violenza sulle donne fa 88 vittime ogni giorno, una donna ogni 15 minuti. Le vittime indicano l’ex partner quale autore degli atti persecutori nel 60% dei casi, e in oltre l’89%, le donne vittime sono italiane, così come italiani (74%) sono gli autori, contrariamente a ciò che si pensa.
Nonostante la vastità del fenomeno, questi dati mostrano un risvolto positivo: l’evidenza di una presa di coscienza che la violenza sulle donne sia un reato, e una maggiore fiducia nel denunciare l’accaduto. Purtroppo ancora oggi esistono barriere culturali per cui la violenza intra-familiare è spesso considerata un problema privato. Per quanto i recenti interventi normativi provino ad arginare un fenomeno in aumento, le donne si sentono lasciate da sole ad affrontare il loro carnefice. Tant’è vero che, quando la donna prova a lasciare il compagno violento, spesso torna con lui, perché ne dipende economicamente e non ha trovato aiuto giuridico e morale all’esterno.
Occorrono politiche di sensibilizzazione che trasmettano il messaggio che, per ottenere l’aiuto sperato, bisogna raccontare dei maltrattamenti subiti e mettersi in contatto con le istituzioni e i servizi dedicati. Ma questo non è sufficiente, bisogna puntare anche, e soprattutto, sull’indipendenza economica femminile, affinché la donna possa affrancarsi dall’uomo violento. È poi fondamentale che la vittima non si senta tale una seconda volta: dopo la denuncia, contestualmente alla messa in sicurezza della donna, devono seguire le imputazioni, e le misure cautelari. Serve inoltre che le donne riescano ad avere sempre maggior fiducia nelle figure professionali: assistenti sociali, avvocati, forze dell’ordine, magistrati, i quali sinergicamente devono supportarla.
Parallelamente è necessario un cambio di rotta culturale. Gli uomini vanno educati al rispetto del genere opposto, smontando pregiudizi che sono retaggio di una cultura becera e maschilista, che sin qui non è stata repressa e punita a dovere. Solo così potremo evitare che la violenza raggiunga il suo apice nel femminicidio, che nasce da un’idea malata di possesso della donna, e che rappresenta più di un terzo degli omicidi. Perché se non c’è donna al mondo che meriti di essere maltrattata, tantomeno ce n’è una che meriti di morire, per un amore malato.
Sull’argomento, noi di Pop abbiamo intervistato l’avv. Carmen Currò, fondatrice e presidentessa emerita del CEDAV (Centro donne antiviolenza):
Da cosa nasce la violenza contro le donne? È una particolare devianza dell’uomo o piuttosto un retaggio culturale errato?
“La violenza contro le donne trova origine nei rapporti di potere tra i generi, retaggio del sistema patriarcale che incide, limitandoli, sui diritti delle donne e sulla loro collocazione in tutte le sfere della vita. Gli uomini, e anche le donne, sono intrisi di cultura patriarcale sin da bambini. La nostra cultura trasferisce stereotipi che separano il maschile dal femminile sin dall’infanzia. Essere donna significa essere bella e accudente, compiacente, essere uomo, invece, significa essere competitivo, esercitare la forza fisica, il potere e l’autorità sino all’uso normale della violenza. Si tratta, quindi di un grande problema della nostra cultura, a tutte le latitudini, considerato che la violenza contro le donne non ha confini territoriali”.
Avv. Currò, come si può prevenire la violenza contro la donna?
“È fondamentale che, una volta acquisita la consapevolezza che non si tratta di una patologia, una malattia dell’uomo, ma di un retaggio della cultura in cui è cresciuto, ci si attivi per educare sia le ragazze sia i ragazzi a sviluppare valori e principi ispirati al rispetto dell’altro e dell’altra, alla solidarietà e alla cooperazione. È fondamentale anche sviluppare un’educazione riguardante le pari opportunità, offrendo modelli meno rigidi nell’esercizio della vita quotidiana, che veda la possibilità di risolvere i conflitti attraverso il dialogo, evitando che la volontà di alcune persone sia imposta a discapito di altre. Naturalmente, hanno molta importanza la formazione e l’educazione scolastica: sempre più gli insegnanti devono rispondere a tali esigenze e trasmettere agli studenti e alle studentesse messaggi di rispetto tra i generi”.
È vero che le vittime spesso non sanno dove cercare aiuto, non conoscono l’esistenza dei centri antiviolenza?
“Sono ancora troppe le donne che subiscono violenze, specie tra le mura domestiche. Spesso le vittime chiedono aiuto troppo tardi o non fanno in tempo a rivolgersi alle persone giuste, perché isolate e impaurite. Non basta denunciare, perché spesso la parola delle donne non viene presa in debita considerazione. Occorre che le donne sappiano che nelle città esistono i Centri antiviolenza, ormai da molti anni, ai quali si possono rivolgere per essere sostenute e protette, insieme ai loro figli. Le operatrici dei Centri sono tutte formate e aiutano le donne a trovare vie di uscita dalla violenza, comprendere i segnali dei comportamenti maltrattanti e violenti, a volte non fisici ma psicologici, economici. Quasi in tutte le città sono state costituite Reti che garantiscono una migliore pubblicizzazione dei Servizi esistenti e un lavoro in sinergia tra i vari attori quali i Centri antiviolenza, i consultori, i servizi sociali, le forze dell’ordine e la magistratura”.
È vero che molte donne non considerano la violenza subita un reato?
“Sì, spesso le donne considerano i comportamenti maltrattanti e violenti come normali in quanto la cultura da cui provengono li considera tali, modi di rapportarsi usuali e ripetuti, giustificati e tollerati. Affinché la violenza venga considerata un reato, è necessario che accada un fatto traumatico, che riguarda se stessi o i figli, un processo di elaborazione a cui si viene portati da terzi . La legislazione contro la violenza sulle donne è recente, è del 1996 la legge contro la violenza sessuale, la n. 66; solo da quel momento venne considerato un reato contro la persona e non più contro la morale! Tutte le altre leggi sono state emanate dagli anni 2000 in poi. Ancora la cultura della famiglia, delle relazioni vede una disparità di ruoli, ove l’uomo decide e la moglie accetta o esegue”.
Perché, molte volte, le donne che provano a lasciare il partner violento decidono poi di tornare con lui?
“Spesso le donne non hanno autonomia economica che permetta loro di vivere dignitosamente con i propri figli, non hanno una casa, non hanno possibilità di impiego e di reddito. Vi è ancora un sistema rigido di organizzazione domestica che vede le donne accudire i figli, gli anziani e le persone affette da handicap. […] Spesso le donne ritornano dai compagni violenti perché non hanno dove andare, perché è difficile la battaglia giudiziaria, lenta e spesso rimangono sole. I figli sono l’anello debole della catena su cui passano molti ricatti. A volte, la paura di un male peggiore a sé o ai figli le fa ritornare, illudendosi di potercela fare, di cambiare il partner violento”.
Cosa non funziona, o non funziona ancora, nella macchina amministrativa?
“Le istituzioni preposte, nonostante abbiano fatto negli ultimi dieci anni molti passi avanti, non hanno reso ancora sicura la vita delle donne che subiscono violenza. […] I comuni, che avrebbero secondo la legge 392 del ’90, il coordinamento di tutti i servizi sociali, incluse le case di accoglienza e le case rifugio, sono molto indietro. Sul territorio rimangono i Centri antiviolenza, sentinelle solitarie, spesso non coadiuvati dalle Istituzioni, che si occupano troppo poco di garantire finanziamenti stabili e sufficienti. Viene lasciata al volontariato la vera azione di contrasto alla violenza e di aiuto alle donne vittime. I centri fanno iniziative nelle scuole, organizzano corsi di formazione ma, soprattutto, accolgono nel quotidiano le donne che vogliono spezzare la catena della violenza, offrendo, gratuitamente, aiuto, solidarietà, consulenza sociale, psicologica, legale. […] È persino divenuta una moda per alcune associazioni o persone occuparsi di violenza, senza però competenza e senza formazione alcuna”.
Come può una vittima ricostruire la propria vita?
“Una donna che è uscita dal tunnel della violenza, in genere, fa un percorso di consapevolezza, scoprendo di avere talenti sopiti e capacità prima ignorate. In genere, le donne che si sono liberate sono più attive nella ricerca di un lavoro, alcune si cimentano nell’imprenditoria. Le istituzioni, su impulso dei Centri antiviolenza, si stanno attivando per prevedere Borse lavoro, e altre priorità nella ricerca di un posto. L’orami nota convenzione di Istanbul ha dato le linee guida a tutti gli Stati europei che l’hanno accolta, tra cui l’Italia, e sono previsti interventi a tutto tondo per affrontare la piaga della violenza contro le donne. Sensibilizzazione, formazione, rilevazione e contrasto sono ormai le linee delle azioni degli Stati. L’Italia è ancora indietro, perché non è costante negli interventi. Ad esempio, i Piani Nazionali Antiviolenza stentano a diventare veri strumenti d’intervento, con finanziamenti adeguati, iniziative di controllo e di coordinamento tra le regioni. Naturalmente, molte cose sono cambiate negli ultimi anni e le donne sempre di più, avendo anche acquisto titoli di studio, si rendono economicamente indipendenti; spesso, ciò non è accettato dai partner che non riferiscono l’emancipazione economica alla libertà di movimento”.