Dieci persone accusate di aver svuotato quattro società attraverso un sistema di auto-finanziamento illecito. Nel mirino anche l’ex politico già condannato per mafia.
Bari – Un colossale svuotamento di patrimonio aziendale da oltre 58 milioni di euro. È questa l’accusa che pesa su dieci persone raggiunte dall’avviso di chiusura indagini nell’ambito di un’inchiesta sul dissesto finanziario di un gruppo imprenditoriale barese operante nel settore edilizia e real estate.
L’operazione investigativa ha messo sotto la lente d’ingrandimento un sistema che, secondo gli inquirenti, avrebbe permesso di drenare sistematicamente risorse dalle casse di quattro aziende riconducibili alla galassia imprenditoriale della famiglia Degennaro. Il meccanismo sarebbe andato avanti per anni, fino al tracollo definitivo di Sudcommerci, la società capofila dichiarata fallita tre anni fa.
Nel mirino degli investigatori del Nucleo di polizia economico-finanziaria di Bari sono finiti cinque esponenti della stessa dinastia: tre fratelli – Emanuele, Davide e Anna – insieme alla loro madre Giacoma Viterbi e al nipote Giuseppe. Ad affiancarli nel registro degli indagati ci sono altre cinque figure che hanno gravitato nell’orbita gestionale delle imprese coinvolte: Raffaele Giove, Vincenzo Laudiero, Benito Umberto Giarletti e Luigi Ungaro.
Ma il nome che fa più rumore è quello di Giacomo Olivieri, professionista forense ed ex rappresentante nell’assemblea regionale pugliese. L’uomo, finito in manette dodici mesi fa, ha da poco ricevuto una condanna definitiva a nove anni per aver intrecciato rapporti con la criminalità organizzata in cambio di voti. Attualmente si trova ristretto nella propria abitazione.
Il procuratore Lanfranco Marazia ha coordinato un’indagine che ha svelato quello che viene definito un vero e proprio “sistema” fraudolento. Tutto è partito dall’esame del fallimento di Sudcommerci: i militari delle Fiamme Gialle hanno subito notato anomalie contabili che segnalavano una crisi ben più profonda. Da lì, l’attenzione si è allargata ad altre tre realtà societarie del medesimo gruppo, per le quali il tribunale ha disposto la messa in liquidazione forzata dopo aver verificato debiti ingenti verso lo Stato e bilanci in rosso cronico.
Il castello accusatorio poggia su diverse condotte illecite che si sarebbero intrecciate e sovrapposte. Prima di tutto, i finanzieri hanno ricostruito una fitta rete di movimentazioni di denaro tra le varie aziende del gruppo: operazioni che sulla carta apparivano legittime, ma che nella sostanza servivano solo a giustificare prelievi di cassa poi spariti nel nulla, lontano dalla portata di chi aveva crediti da recuperare.
C’è poi il capitolo delle fatture fantasma: pagamenti verso fornitori per servizi mai resi, soldi usciti dalle società per alimentare canali paralleli. E ancora: trasferimenti di denaro direttamente ai proprietari dell’azienda, presentati come prestiti ma mai restituiti, trasformando di fatto le società in bancomat personali.
Gli inquirenti hanno inoltre documentato una gestione selettiva dei debiti: alcuni creditori venivano pagati, altri lasciati in attesa, in barba al principio legale che impone di trattare tutti i creditori allo stesso modo quando un’azienda è in crisi. Una strategia che avrebbe permesso di favorire certi soggetti a discapito di altri.
Ma forse l’elemento più grave, se le accuse venissero confermate, riguarda il fisco. Secondo le indagini, per quindici anni le società avrebbero accumulato debiti tributari per 15 milioni di euro, senza alcuna intenzione di versare quanto dovuto. Non si sarebbe trattato di semplice incapacità economica, ma di una scelta consapevole: usare i soldi delle tasse come fonte di liquidità per mandare avanti le attività, in quello che viene definito un “sistema di auto-finanziamento illecito scientificamente pianificato”.
Per nascondere tutto questo, infine, sarebbero stati manipolati i documenti contabili: bilanci ritoccati, valori gonfiati artificialmente, partecipazioni societarie sovrastimate. Tutto per dare l’impressione che le aziende stessero in piedi, quando invece il castello era già crollato. Una presunta finzione contabile che avrebbe permesso di continuare a operare e a svuotare le casse, mentre i creditori e lo Stato rimanevano con un pugno di mosche.
Ora la parola passa alla Procura, che dovrà decidere se chiedere il rinvio a giudizio per gli indagati.