Il procuratore generale chiede chiarimenti dopo la liberazione di 9 boss per scadenza dei termini. Tre anni senza sentenza di primo grado alimentano il dibattito sulla crisi della giustizia.
Napoli – Il suono delle chiavi che si aprono nelle celle del carcere di Poggioreale ha riecheggiato come uno schiaffo alla giustizia italiana. Nove esponenti del clan Moccia, dinastia criminale che ha dominato per decenni gli affari illeciti di Afragola e dell’hinterland napoletano, sono tornati in libertà non per un verdetto di assoluzione ma per un paradosso del sistema giudiziario che ha dell’incredibile: la scadenza dei termini massimi di custodia cautelare dopo tre anni di detenzione senza nemmeno una sentenza di primo grado.
La notizia ha fatto il giro degli uffici della Procura di Napoli arrivando fino alla scrivania del procuratore Nicola Gratteri, il magistrato che da anni conduce una guerra senza quartiere contro le cosche calabresi e campane. Gratteri non ha perso tempo: ha immediatamente richiesto al coordinatore del pool anticamorra, il procuratore aggiunto Sergio Amato, una relazione dettagliata su ogni singolo passaggio di un procedimento che si è trasformato in un incubo burocratico.
I nomi che fanno tremare Afragola
Tra i nove scarcerati figurano Antonio Luigi Moccia e Gennaro Moccia, nomi che ad Afragola evocano ancora oggi paura. Il clan Moccia non è una delle tanti organizzazioni criminali: secondo gli investigatori della Direzione Distrettuale Antimafia, rappresenta uno dei nuclei storici della camorra napoletana, con ramificazioni che si estendono ben oltre i confini del comune vesuviano, toccando gli affari illeciti di mezza Campania e arrivando fino alle coste del Lazio.

Il clan ha attraversato generazioni, adattandosi ai cambiamenti dei tempi e delle opportunità criminali. Dagli anni ’80, quando controllavano il traffico di stupefacenti nelle periferie nord di Napoli, fino agli anni 2000, quando hanno diversificato i propri interessi verso l’usura, il racket delle estorsioni e gli appalti pubblici. Antonio Luigi Moccia, in particolare, è considerato dagli investigatori uno degli strateghi dell’organizzazione, capace di mantenere un profilo relativamente basso pur rimanendo al centro delle decisioni più importanti.
Solo Angelo Moccia rimane dietro le sbarre ma per un episodio diverso e privo dell’aggravante mafiosa. Una situazione che, secondo fonti vicine alla Procura, potrebbe comportare anche la fine del regime di carcere duro del 41-bis, il carcere duro riservato ai detenuti considerati più pericolosi per la sicurezza nazionale.
L’intervento delle istituzioni: un caso che imbarazza
La gravità della situazione non è sfuggita ai vertici della magistratura campana. La presidente della Corte di Appello di Napoli, Maria Rosaria Covelli, ha immediatamente avviato accertamenti specifici, richiedendo tutti gli atti al presidente facente funzioni del tribunale, Gian Piero Scoppa.

Ma l’eco del caso potrebbe arrivare fino a Roma. Fonti del Ministero della Giustizia fanno sapere che nelle prossime ore da via Arenula potrebbe partire una richiesta ufficiale di chiarimenti agli uffici interessati. Non sarebbe la prima volta che il dicastero guidato da Carlo Nordio interviene in casi di questo tipo, soprattutto quando sono coinvolte organizzazioni criminali di particolare pericolosità sociale.
Il timing non poteva essere peggiore per un sistema giudiziario già sotto pressione per i lunghi tempi processuali e le inefficienze organizzative.
L’odissea processuale: tre anni nel labirinto burocratico
Per comprendere la portata del disastro giudiziario, è necessario ripercorrere passo dopo passo l’iter di un procedimento che sembrava destinato a concludersi rapidamente. Il 25 luglio 2022, la Procura di Napoli Nord dispose il decreto di giudizio immediato, una procedura speciale che consente di saltare l’udienza preliminare quando gli elementi di prova sono considerati evidenti. Il processo doveva iniziare il 17 ottobre 2022 davanti al tribunale di Aversa.
Primo intoppo: il processo viene rinviato al 13 dicembre 2022. Un ritardo di due mesi che già allora avrebbe dovuto accendere qualche campanello d’allarme. Ma il vero calvario inizia quando la difesa, rappresentata da un pool di avvocati di primo piano – Giuseppe Scafuro, Saverio Campana, Giuseppe Stellato, Nicola Quatrano e Saverio Senese – solleva l’eccezione di incompetenza territoriale.

Il 20 dicembre 2022, i giudici di Aversa accolgono l’istanza della difesa e dispongono la trasmissione degli atti al tribunale di Napoli. Una decisione che, con il senno di poi, si rivelerà fatale per le sorti del procedimento. Il fascicolo arriva negli uffici del capoluogo e il 2 gennaio 2023 viene assegnato alla settima sezione penale, collegio C.
Ma la sfortuna sembra accanirsi contro il processo: l’astensione di uno dei giudici a latere costringe a un ulteriore trasferimento al collegio A della stessa sezione. A questo punto siamo già a febbraio 2023, sei mesi dopo il decreto di giudizio immediato e il processo deve ancora iniziare nel merito.
Sessanta udienze nel vuoto
Da febbraio 2023 a luglio 2025, il collegio A della settima sezione penale del tribunale di Napoli ha celebrato ben sessanta udienze. Sessanta appuntamenti con la giustizia che non sono bastati per arrivare nemmeno alla fase conclusiva del dibattimento, figuriamoci a una sentenza.

Cosa è successo in queste sessanta udienze? Le fonti giudiziarie parlano di un procedimento particolarmente complesso, con decine di testimoni da sentire, intercettazioni telefoniche e ambientali da analizzare, consulenze tecniche da esaminare. Il fascicolo del clan Moccia, secondo chi lo ha visionato, è corposo: migliaia di pagine di ordinanze cautelari, verbali di interrogatorio, relazioni investigative che ricostruiscono anni di attività criminale.
Ma la complessità, per quanto comprensibile, non sembra poter giustificare tre anni senza una sentenza di primo grado. Soprattutto quando si considera che nel frattempo quindici persone rimanevano in carcere, in attesa di conoscere il proprio destino giudiziario.
La strategia vincente della difesa
Gli avvocati della difesa hanno dimostrato una conoscenza approfondita delle norme processuali, sfruttando magistralmente le inefficienze del sistema. L’istanza per il riconoscimento della scadenza dei termini di custodia cautelare è stata presentata con argomentazioni giuridiche solide, basate su una lettura rigorosa del codice di procedura penale.
Il punto centrale della questione riguarda l’interpretazione dell’articolo 303 del codice di procedura penale, che stabilisce i termini massimi di custodia cautelare. Secondo la difesa, il trasferimento del processo da Aversa a Napoli non può essere considerato un atto “interruttivo” del decorso del tempo, quindi i tre anni vanno calcolati dalla data dell’arresto, indipendentemente dai passaggi procedurali successivi.
La sesta sezione penale del tribunale di Napoli ha accolto questa interpretazione, ritenendo “insuperabile” il tetto dei tre anni già scontato dai quindici imputati. Una decisione che ha scatenato immediate polemiche negli ambienti giudiziari, dove non mancano magistrati che la considerano eccessivamente garantista.
Le misure alternative: un contentino insufficiente
I giudici hanno cercato di limitare i danni imponendo agli scarcerati il divieto di dimora in Campania e nel Lazio. Una misura che, sulla carta, dovrebbe impedire ai membri del clan Moccia di tornare nei loro territori di influenza e riprendere le attività criminali. Ma chi conosce le dinamiche della camorra sa bene che un divieto di dimora difficilmente può fermare chi ha costruito la propria fortuna sulla capacità di aggirare le regole.
Il provvedimento di scarcerazione fa esplicito riferimento alla “oggettiva gravità dei fatti” contestati. La Campania e il Lazio sono regioni che offrono comunque ampi spazi di movimento. E soprattutto, nulla impedisce ai Moccia di dirigere le proprie attività criminali a distanza, utilizzando prestanome e fiduciari. La storia della camorra è piena di boss che hanno continuato a comandare anche dal confino o dal carcere.
La controffensiva della Procura
Nicola Gratteri non è tipo da arrendersi facilmente. La Procura di Napoli sta già preparando il ricorso, che potrebbe essere presentato sia al Tribunale del Riesame che direttamente alla Corte di Cassazione. L’obiettivo è ottenere una diversa interpretazione della norma sui termini di custodia cautelare, sostenendo che il trasferimento di competenza tra tribunali diversi costituisce un fatto interruttivo del decorso temporale.

Gli avvocati della Procura stanno lavorando su una tesi giuridica complessa ma non priva di fondamento: il trasferimento degli atti da Aversa a Napoli, seguito dalla riassegnazione tra collegi diversi, avrebbe determinato una sostanziale “novazione” del procedimento, tale da giustificare un nuovo calcolo dei termini di custodia cautelare.
Se il ricorso della Procura dovesse essere respinto, si aprirebbe un precedente pericoloso, che potrebbe essere sfruttato da altri imputati in situazioni simili.
Un sistema in crisi
Il caso Moccia non è un episodio isolato ma l’avvisaglia di una crepa più profonda del sistema giudiziario italiano. I dati del Ministero della Giustizia parlano chiaro: la durata media dei processi penali in primo grado è di oltre due anni, con punte che superano i quattro anni nei tribunali più congestionati. E Napoli è tradizionalmente uno degli uffici giudiziari più sovraccarichi d’Italia.
La questione dei termini di custodia cautelare rappresenta uno dei nodi più controversi della giustizia penale. Da un lato c’è l’esigenza di tutelare i diritti degli imputati, evitando detenzioni troppo prolungate senza una condanna definitiva. Dall’altro c’è la necessità di garantire l’efficacia dell’azione penale, soprattutto nei confronti della criminalità organizzata.
Il paradosso è che spesso sono proprio i processi più importanti, quelli che riguardano le organizzazioni criminali più pericolose, a richiedere più tempo per essere definiti. La complessità delle indagini, il numero elevato di imputati, la mole di prove da esaminare rendono quasi inevitabili i lunghi tempi processuali.
Le reazioni del mondo politico e sociale
La notizia delle scarcerazioni ha suscitato immediate reazioni nel mondo politico. Il deputato Francesco Emilio Borrelli, da sempre in prima linea nella lotta alla camorra, ha parlato di “schiaffo alle vittime della criminalità organizzata” e ha annunciato un’interrogazione parlamentare per fare chiarezza sui ritardi processuali.

Anche le associazioni antimafia hanno espresso preoccupazione. Libera, l’organizzazione fondata da don Luigi Ciotti, ha sottolineato come episodi di questo tipo rischino di alimentare il senso di impunità e di sfiducia nelle istituzioni, soprattutto nelle aree già compromesse dalla presenza della criminalità organizzata.
Intanto, la Procura sta valutando la possibilità di richiedere nuove misure cautelari, basate su esigenze diverse dal rischio di fuga o dalla durata del processo. Se dovessero emergere elementi che dimostrino tentativi di inquinamento probatorio, i Moccia potrebbero tornare dietro le sbarre.