Caso Open Arms: la Procura di Palermo porta Salvini in Cassazione

Una mossa processuale rara: i Pm contestano direttamente alla Suprema Corte la piena assoluzione per il caso dei migranti bloccati in mare.

Palermo – I magistrati hanno scelto una strategia processuale inconsueta dopo la piena assoluzione di Matteo Salvini. Invece di seguire il normale iter giudiziario con l’appello, hanno portato il caso direttamente davanti alla Corte di Cassazione. Al centro della controversia c’è la vicenda dei 147 migranti che rimasero fermi in mare per quasi tre settimane nell’estate del 2019.

L’attuale responsabile del dicastero delle Infrastrutture, che all’epoca guidava il Viminale, ha scelto di non presentarsi all’udienza di oggi. Attraverso i social ha ribadito la sua convinzione di aver agito correttamente nel bloccare gli sbarchi. Al contrario, Oscar Camps, il leader dell’organizzazione umanitaria protagonista della vicenda, ha partecipato personalmente alla sessione davanti ai giudici supremi.

Marzia Sabella e Giorgia Righi, le due magistrate che avevano originariamente chiesto una pena detentiva di sei anni, spiegano che il primo giudizio ha confermato la loro versione sui fatti accaduti. Il punto di rottura riguarda invece quale normativa dovesse essere applicata. I giudici di primo grado hanno stabilito che Roma non aveva responsabilità nell’autorizzare lo sbarco, attribuendo invece questo compito a Madrid, dato il collegamento della ONG con il territorio iberico.

L’accusa non accetta questa lettura e richiama una pronuncia recente della stessa Corte di Cassazione. Si tratta di una decisione presa a marzo riguardante un episodio analogo: una nave della guardia costiera italiana che aveva tenuto 177 persone a bordo per cinque giorni vicino alle coste siciliane. In quel frangente, i giudici delle sezioni unite condannarono il governo italiano a pagare danni economici, riconoscendo che si era verificata una detenzione illegittima.

Il ragionamento giuridico presentato dalla Procura si concentra su un principio fondamentale: le normative marittime internazionali non possono lasciare zone grigie nella protezione degli individui. L’obbligo di intervenire quando qualcuno si trova in difficoltà in mare, secondo i Pm, vale per chiunque venga a sapere della situazione critica, sia che si tratti di enti pubblici che di soggetti privati.

Questa interpretazione chiede alla Cassazione di chiarire che lo Stato italiano aveva precise responsabilità nel garantire un approdo sicuro, indipendentemente da quale bandiera sventolasse l’imbarcazione o da quale paese provenisse l’organizzazione coinvolta.

Non tutti nella magistratura condividono questa impostazione. Il rappresentante della Procura generale presso la Cassazione ha redatto un lungo documento in cui esprime scetticismo sulla solidità giuridica del ricorso. Secondo questa analisi, mancherebbero prove sufficienti per dimostrare che siano presenti tutti i requisiti necessari per configurare i reati ipotizzati.

Il documento sottolinea che paragonare questa situazione con quella della Diciotti presenta problemi significativi. Le due vicende sarebbero troppo diverse e, soprattutto, quella precedente riguardava aspetti civilistici mentre qui si discute di responsabilità penali. Per configurare un reato, sostiene la Procura generale, bisognerebbe provare che l’allora ministro avesse deliberatamente voluto impedire la libertà di movimento delle persone trattenute sull’imbarcazione.

I giudici della Suprema Corte potrebbero pronunciarsi già nelle prossime ore, dopo aver ascoltato tutte le parti coinvolte nel procedimento. L’esito potrebbe aprire la strada a un nuovo processo oppure confermare definitivamente l’assoluzione decisa a dicembre.