Il ministro: “Strumenti automatici non funzionano, nel 2006 il sovraffollamento tornò ai livelli precedenti in tre anni”. Avviate interlocuzioni con magistratura di sorveglianza per accelerare le pratiche.
Carlo Nordio traccia una linea netta: l’indulto non risolve il sovraffollamento carcerario, è solo un’illusione temporanea che la storia ha già smascherato. Il ministro della Giustizia affida la sua strategia a un dato: 10.105 detenuti con condanna definitiva hanno potenzialmente i requisiti per accedere a misure alternative, ma restano dentro perché il meccanismo è lento, ingolfato, inefficiente. Per questo ha messo in piedi una task force con l’obiettivo di sbloccare le pratiche e deflazionare le presenze negli istituti penitenziari applicando semplicemente le leggi che già esistono.
Il ragionamento di Nordio poggia su numeri che parlano da soli. Luglio 2006, governo Prodi: 60.710 detenuti. Arriva l’indulto, il 36% viene rimesso in libertà. Sembra la soluzione. Invece nel febbraio 2008, appena un anno e mezzo dopo, i detenuti sono già risaliti a 51.195. Nel luglio 2009 si toccano i 63.472, più di prima. E intanto la recidiva galoppa: in tre anni il 48% di chi era uscito torna dentro. «Questi numeri dimostrano che le misure lineari e automatiche non funzionano», taglia corto il ministro. Serve altro, serve guardare caso per caso, considerare le specificità trattamentali dei singoli detenuti invece di aprire le porte in blocco sperando che il problema si dissolva.
La soluzione che Nordio propone non richiede nuove leggi, non implica rivoluzioni normative. Richiede applicare quello che c’è già. I 10.105 detenuti individuati hanno caratteristiche precise: condanna definitiva, pena residua inferiore ai 24 mesi, reati che non rientrano tra quelli ostativi previsti dall’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario, nessuna sanzione disciplinare grave negli ultimi dodici mesi. In teoria potrebbero già essere fuori, inseriti in percorsi di detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali, lavoro esterno. In pratica sono ancora dentro perché le pratiche giacciono ferme davanti ai Tribunali di sorveglianza.
La task force ministeriale ha quindi avviato un’operazione di coordinamento con la magistratura di sorveglianza e con i singoli istituti penitenziari. L’obiettivo è accelerare l’iter delle domande già presentate, favorire lo scambio di dati e informazioni sui detenuti, eliminare i colli di bottiglia burocratici che tengono bloccate migliaia di posizioni. Nordio parla di «collaborazione istituzionale» che sta consentendo «un iter più veloce delle pratiche già incardinate». Tradotto: non serve inventare niente, basta far funzionare meglio quello che già dovrebbe funzionare.
Il sovraffollamento delle carceri italiane è una piaga che «lede la dignità della persona», ammette il ministro. Ma la risposta non può essere un automatismo legislativo che svuota le celle oggi per riempirle domani, magari con gli stessi volti di ieri. L’esperienza del 2006 ha insegnato che l’indulto è un boomerang: produce un sollievo momentaneo seguito da un effetto rebound che vanifica tutto. E nel frattempo alimenta recidiva, mina la credibilità della pena, crea un cortocircuito tra giustizia e percezione della sicurezza.
Nordio preferisce la strada lunga, quella che passa attraverso una valutazione individualizzata delle posizioni, che distingue chi può davvero essere reinserito in società da chi invece rappresenta un pericolo. È una strategia che richiede tempo, risorse, coordinamento tra istituzioni. Ma è anche l’unica che può produrre risultati duraturi invece di rattoppi temporanei. Se la task force riuscirà davvero a far uscire 10mila detenuti attraverso misure alternative, senza aprire porte a casaccio, avrà dimostrato che esiste una terza via tra l’indulto e l’inerzia. Una via più faticosa, certamente. Ma forse l’unica che funziona.