Oggi l’anniversario dell’esplosione in cui persero la vita il magistrato, la moglie e gli agenti di scorta. Si cerca verità sui depistaggi.
Palermo – Il 23 maggio 1992, nell’attentato impresso nella memoria di tutti come la “strage di Capaci”, persero la vita i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo insieme a tre agenti della scorta. Ma le stragi di Capaci e di via D’Amelio sono connesse al fil rouge della lotta di magistrati eroi contro la criminalità organizzata. A separarle sono 57 giorni. Trentadue sono gli anni che invece dividono i due eccidi da una verità piena la cui ricerca è ancora oggetto di processi e nuove indagini, tra condanne, assoluzioni, prescrizioni e spunti investigativi che contribuiscono a tenere tuttora aperto il conto con la giustizia.
Un anniversario quello di oggi che cade dopo la morte di Matteo Messina Denaro, avvenuta nel settembre scorso, l’ultimo boss stragista che era rimasto fuori dal carcere, arrestato a Palermo il 16 gennaio 2023. Stanco e malato, non ha offerto alcun cenno di cedimento e di pentimento, fedele a un copione triste,
usurato e per nulla eroico. Non ci sarà quest’anno a commemorare le vittime, un eroe vero e tenace, scomodo perché irriducibile nella sua istanza di verità: Vincenzo Agostino, morto il 21 aprile a 87 anni, con la
sua lunga barba bianca, a segnare l’assenza di una giustizia piena sulla morte del figlio Nino, il poliziotto cacciatore di latitanti, ucciso dalla mafia il 5 agosto 1989, assieme alla moglie incinta, Ida Castelluccio.
Ulteriore dimostrazione che nulla si chiude su questa tormentata e tragica storia, è la clamorosa recentissima notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati, da parte della procura di Firenze, dell’ex generale del Ros, Mario Mori, per i reati di strage, associazione mafiosa e associazione con finalità di terrorismo internazionale ed eversione dell’ordine democratico, in relazione agli attentati del ‘Continente’ del 1993, perché “pur avendone l’obbligo giuridico, non impediva, mediante doverose segnalazioni e denunce all’autorità
giudiziaria, ovvero con l’adozione di autonome iniziative investigative o preventive, gli eventi stragisti di cui aveva avuto plurime anticipazioni” poi verificatisi a Firenze, Roma e Milano, nonché il fallito attentato allo stadio Olimpico “sebbene fosse stato informato”.
Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d’incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di “colossale depistaggio”. Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di
Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all’aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato. Alle 17.58, sull’autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma.
Oggi quell’esplosione rivive in MuST23, il museo immersivo che diventa testimonianza e “memoria viva” della strage. Nello scalo merci sono stati allestiti cinque container dai colori accesi, tre sono sale immersive con visori e realtà virtuale: per “entrare” in autostrada immediatamente dopo l’esplosione, ascoltare testimonianze, guardare immagini di repertorio attingendo agli archivi della Rai. Ma MuST23 deve essere un punto di partenza: per raccontare trent’anni di domande, lotte, anche delusioni; e arrivare alla coscienza di oggi, con la memoria di ieri. E dato che a Capaci non è mai esistita una libreria, un punto di incontro, con MuST23 ci saranno: Feltrinelli, che è tra i partner e “abitera’” uno dei container, ovviamente “rosso” che diventerà un presidio di cultura contro la mafia.
La prima auto blindata – con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo – venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L’esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle
istituzioni: “Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest’uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli”.
A un certo punto, raccontò Borsellino, “fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura”. La mafia “ha preparato e attuato l’attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia”. E poco fu fatto, per proteggere Paolo Borsellino. 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la
sua scorta in via D’Amelio, dove vivevano la madre e la sorella.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell’abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. Erano le 16.58. L’esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L’autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni;
Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo. Il 14 giugno del 2022 la Cassazione ha confermato l’ergastolo per Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello nell’ambito del processo Capaci bis. Secondo la ricostruzione accusatoria, gli imputati avrebbero svolto un ruolo fondamentale per l’organizzazione dell’attentato.
Per Maria Falcone che allora commentò il verdetto, questo “apre allo scenario della convergenza di interessi nell’attentato, prospettato nella sentenza della Corte d’assise”. Due, per Maria Falcone, gli elementi
accertati dai magistrati: il sondaggio che, ha raccontato il pentito Giuffré, venne fatto da Cosa nostra presso ambienti politici e imprenditoriali prima dell’attentato; e il diktat di Riina che, a marzo del 1992, disse ai suoi di fermare la missione romana che avrebbe dovuto eliminare Giovanni Falcone perché a Palermo ‘c’erano cose più importanti da fare’. Elementi che fanno pensare appunto a una convergenza di ambienti esterni alla mafia nell’interesse ad uccidere Giovanni”.
Di certo il 27 aprile dell’anno scorso la Corte di Cassazione ha messo la parola fine sulla presunta trattativa Stato-mafia, affermando che gli ex ufficiali del Ros Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, “non hanno commesso il fatto”. Una formula piena, mente la Corte in secondo grado aveva utilizzato la formula meno ampia “perché il fatto non costituisce reato”, assolvendo comunque gli imputati. Ma è in corso a Caltanissetta il processo d’appello sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, contro
tre ex poliziotti. La sentenza di primo grado, emessa il 12 luglio 2022 si era concluso con la dichiarazione di prescrizione del reato di calunnia aggravata contestato ai poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei e l’assoluzione del terzo poliziotto imputato, Michele Ribaudo.
L’accusa ha parlato di “contraddizioni e profili di illogicità” e sostiene che “è dimostrato in maniera incontrovertibile il coinvolgimento nella strage del 19 luglio 1992 anche di soggetti estranei all’associazione mafiosa Cosa nostra”. Ne sarebbero prova la “tempistica della strage che non coincide con gli interessi della consorteria mafiosa e la strana presenza di appartenenti al servizio di sicurezza attorno alla vettura blindata del magistrato negli attimi immediatamente successivi all’esplosione”. Del resto gli stessi giudici che hanno firmato la contestata sentenza, commentavano: “Tra amnesie generalizzate di molti soggetti appartenenti alle istituzioni e dichiarazioni testimoniali palesemente smentite, l’accertamento istruttorio sconta gli inevitabili limiti derivanti dal velo di reticenza cucito da diverse fonti dichiarative”.
La procura generale il 16 aprile ha chiesto per Bo 11 anni e 10 mesi di reclusione, e per Mattei e Ribaudo 9 anni e 6 mesi. Mentre altri quattro poliziotti sono indagati perché avrebbero dichiarato il falso nel processo di primo grado.