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Caccia selvaggia: la proposta del ministro Lollobrigida fa discutere

Il disegno di legge stravolge la normativa venatoria: caccia in spiaggia, richiami vivi liberalizzati e multe per chi protesta. Le associazioni denunciano l’incostituzionalità.

Roma – Mentre l’Europa si interroga sulla crisi climatica e la perdita di biodiversità, l’Italia di Giorgia Meloni imbocca la strada opposta. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha messo nero su bianco un disegno di legge che smantella tre decenni di conquiste nella tutela ambientale, riscrivendo completamente la legge 157/92 sulla caccia in chiave ultra-liberista.

Si tratta di una proposta di legge che consta di 18 articoli: caccia consentita sulle spiagge e nelle aree demaniali, estensione degli orari fino al tramonto, gare notturne autorizzate e liberalizzazione totale dei richiami vivi. Ma non è tutto.

L’orwelliano ribaltamento della realtà

L’antitesi emerge già dal primo articolo della proposta di legge avanzata dal ministro dell’Agricoltura, dove la caccia viene definita un’attività che “concorre alla tutela della biodiversità e dell’ecosistema. Un ossimoro che farebbe sorridere se non fosse drammaticamente serio: come può l’uccisione sistematica di fauna selvatica proteggere la biodiversità? La risposta è semplice: non può, ma la coerenza scientifica e non solo sembra un dettaglio poco importante.

La proposta del ministro Lollobrigida

Invocare l’articolo 9 della Costituzione – quello sulla tutela dell’ambiente – per giustificare una pratica che per definizione impoverisce gli ecosistemi sembra più un esercizio di manipolazione semantica che altro.

Il Far West delle spiagge italiane

La proposta di Lollobrigida trasforma l’Italia in un gigantesco poligono di tiro. Spiagge, foreste demaniali, aree pubbliche: tutto diventa terreno di caccia. Spazi che appartengono alla collettività vengono di fatto privatizzati per soddisfare gli appetiti di una minoranza armata.

I richiami vivi passano da 7 a 47 specie, senza limiti di possesso se provenienti da allevamenti. Le tre specializzazioni vengono eliminate, permettendo a chiunque di “cacciare tutto“. Perfino le guardie giurate di banche e supermercati ottengono il diritto di uccidere animali. Sembra il trionfo della deregulation applicata alla vita selvatica.

Si potrà cacciare anche sulle spiagge, praticamente una follia

Criminalizzare il dissenso ambientale

Il vero capolavoro, per usare un eufemismo, è l’articolo che prevede sanzioni fino a 900 euro per chi protesta contro le uccisioni di animali durante le attività di controllo. In un colpo solo, il governo criminalizza il dissenso ambientalista e calpesta il diritto costituzionale alla manifestazione del pensiero.

Protestare contro pratiche ritenute lesive dell’ambiente diventa reato. È la democrazia che arretra di fronte alle lobby venatorie, con buona pace dei principi costituzionali tanto spesso invocati dalla maggioranza.

L’ISPRA messa all’angolo

L’eliminazione del parere vincolante dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale rappresenta la vittoria dell’ideologia sulla scienza. Non servono più competenze tecniche per decidere della gestione faunistica: basta il consenso politico delle lobby. Prima si decide cosa si vuole ottenere, poi si cercano le giustificazioni. O meglio, si eliminano gli organi che potrebbero dire di no.

L’urgenza con cui Lollobrigida vuole approvare la riforma “entro l’estate” tradisce la consapevolezza della sua problematicità. Lo stesso ministro ha ammesso che l’obiettivo è “aggirare limiti e sentenze sfavorevoli”. Quando un governo confessa di voler scavalcare i vincoli legali, è evidente che si sta muovendo fuori dal perimetro costituzionale.

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Le proteste delle associazioni ambientaliste

Le associazioni ambientaliste ENPA, LAC, LAV, Lipu e WWF Italia hanno immediatamente denunciato la “palese incostituzionalità” della norma, sottolineando come essa violi diverse direttive europee.

Il paradosso della sicurezza

Mentre si liberalizza l’accesso alle armi e si estendono i territori di caccia, la lotta al bracconaggio sparisce dalle priorità. È il paradosso di una riforma che aumenta i rischi per la sicurezza pubblica proprio mentre afferma di voler regolamentare meglio il settore. Le regioni dovranno ridurre le aree protette se ritenute “eccessive”, con un tetto massimo del 30% del territorio regionale. È la natura che deve adattarsi alle esigenze venatorie, non il contrario.

Un precedente pericoloso

Questa riforma non è solo un regalo alle lobby delle doppiette. È un precedente pericoloso che dimostra come, con maggioranze parlamentari sufficienti, si possano demolire decenni di progresso nella tutela ambientale. Viene quindi da chiedersi quale potrebbe essere il prossimo bersaglio. I parchi nazionali? Le riserve marine? Le zone umide?

Il silenzio di gran parte del mondo politico di fronte a questa deriva è forse l’aspetto più preoccupante. Mentre l’Europa discute di Green Deal e transizione ecologica, l’Italia di Meloni marcia nella direzione opposta.

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