Tra pressioni industriali, divergenze politiche e sfide tecnologiche, il futuro della mobilità sostenibile in Europa resta incerto ma cruciale.
Europa – Il vento del cambiamento climatico soffia impetuoso sull’Europa ma la sua rotta verso un futuro a zero emissioni nel settore automobilistico sembra incontrare resistenze inattese. Il piano ambizioso dell’Unione Europea di decretare la fine della produzione delle auto con motori a combustione interna entro il 2035 è ora al centro di un acceso dibattito.
Le voci critiche, provenienti soprattutto dalle forze politiche di destra e dai potenti lobbisti dell’industria automobilistica, si fanno sempre più insistenti. La loro argomentazione è chiara: un’adesione rigida all’obiettivo “verde” rischia di innescare una spirale negativa fatta di perdita di posti di lavoro, chiusura di stabilimenti produttivi e, paradossalmente, un’aumentata dipendenza dalla Cina, Paese leader nella filiera dei veicoli elettrici. Il timore serpeggiante è che la revisione del provvedimento, attesa nelle prossime settimane, possa portare a un significativo ridimensionamento delle ambizioni iniziali.
In particolare, lo spettro che agita i fautori di una transizione più lenta è la possibile apertura alla vendita di veicoli ibridi plug-in anche dopo il 2035. Questa tecnologia, che combina un motore elettrico con uno a combustione interna, di fatto prolungherebbe l’era della benzina nel Vecchio Continente, smorzando l’impatto del divieto originario.
La promessa di Giorgia Meloni
Se da un lato sembra ormai certo il via libera definitivo agli e-fuel, fortemente sostenuti dalla Germania, dall’altro le speranze italiane sui biocarburanti appaiono sempre più flebili. Nonostante la ferma presa di posizione della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha bollato il bando del 2035 come un esempio di “follia ideologica” e ha promesso battaglia per “correggerlo”, il margine di manovra per i biocarburanti sembra esiguo.

Ma quanto è concreto il rischio di una retromarcia su uno dei pilastri del Green Deal europeo? Francesco Grillo, esperto di sostenibilità dell’Università Bocconi e direttore del think tank Vision, getta uno sguardo lucido sulla situazione. “Lo stop è ancora lì”, afferma con decisione. “Certo, c’è chi ipotizza e auspica delle modifiche. Probabilmente, un approccio più graduale, con step intermedi prima del divieto del 2035, sarebbe stato più razionale. Tuttavia, l’obiettivo di pensionare l’automobile come l’abbiamo conosciuta per oltre un secolo rimane saldo ed è giusto che sia così”.
Il paradosso emblematico
Grillo, nel suo recente articolo su The Conversation, mette in luce un paradosso emblematico: la capitalizzazione di mercato dei cinque principali costruttori automobilistici europei (Volkswagen, Stellantis, Mercedes-Benz, BMW e Renault) si ferma a circa 212 miliardi di dollari, meno di un quarto del valore della sola Tesla. Eppure, questi colossi europei vendono annualmente 25 milioni di veicoli, un terzo del mercato globale. Tesla, al confronto, vende meno di un terzo di quanto venda la sola Stellantis. La lettura di questi dati è impietosa: i mercati finanziari sembrano non credere più nella capacità delle case automobilistiche europee di prosperare in un settore che le ha viste dominatrici per quasi un secolo.

A corroborare questa visione arriva l’eco delle parole del parlamentare olandese Mohammed Chahim, citato dal Washington Post. In un acceso dibattito in aula, Chahim ha risposto agli attacchi al provvedimento europeo con un paragone illuminante: “Oggi mi sento come se fossi nel consiglio di amministrazione di Nokia quando è appena uscito l’iPhone. La nostalgia è una cosa positiva… ma non se blocca l’innovazione, non se blocca il cambiamento”.
“La direzione ormai è segnata: non possiamo più permetterci di dipendere da una tecnologia obsoleta e inefficiente. I combustibili fossili costano significativamente di più dell’elettricità per chilometro percorso. Non possiamo continuare a sprecare risorse che sappiamo essere limitate. E la posta in gioco non è solo la crisi climatica. Si tratta anche di scardinare un sistema energetico centralizzato, con i suoi centri di potere ben definiti in Arabia Saudita, Russia e Stati Uniti, i principali detentori di risorse fossili”.