E’ stata, finora, una pessima consuetudine maschile quella di fare apprezzamenti sessuali volgari verso le colleghe sul luogo di lavoro. Il fatto increscioso è stato sempre giustificato come accadimento goliardico, senza alcun intento offensivo da parte dell’autore di tali…”prodezze linguistiche”.
Roma – Innanzitutto bisognerebbe chiedere alla malcapitata vittima, se si è sentita offesa o meno. Inoltre, è un modo urticante e scriteriato di esibizionismo “machista” allo stato puro, secondo cui alla donna si può dire quello che si vuole, in una sorta di impunità. Ma d’ora in poi bisogna stare attenti, è finita la pacchia. Una recente sentenza della Cassazione, organo supremo della magistratura, ha reso più corposo l’elenco riguardante le “molestie”. Se, come recita la sentenza, vengono appurati “comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità della lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”, l’autore di tali insulti rischia il licenziamento.
Come si evince, le insinuazioni sessuali sono equiparate in ogni aspetto, dal punto di vista giuridico alle molestie. E’ un precedente importante che sicuramente provocherà degli effetti dirompenti nei luoghi di lavoro. Con un buon numero di “maschietti” che cominceranno a “farsela addosso” per il timore di perdere il posto di lavoro. La sentenza è stata emessa dalla sezione “lavoro” della Corte di Cassazione e pubblicata dal quotidiano giuridico Studiocataldi.it. I magistrati hanno respinto il ricorso di un lavoratore, dipendente di un bar in Toscana.
L’agenzia di stampa Adnkronos ha riportato che il lavoratore si è “giocato” il posto di lavoro per “aver tenuto comportamenti consistenti in molestie sessuali in danno di una giovane collega neoassunta con contratto a termine e assegnata a mansioni di addetta al banco del bar”. Secondo le cronache locali la vittima delle… “performances dialettiche” maschili lo aveva già accusato due volte al titolare per allusioni sessuali verbali e fisiche. Per questi motivi era scattato il licenziamento, che dopo un primo giudizio in tribunale, confermato in Corte d’appello, è stato considerato legittimo e definitivo dalla Corte di Cassazione.
Dalla sentenza è emerso un aspetto importante: le allusioni sessuali sono state valutate lesive della dignità, della sicurezza e della considerazione dei colleghi e, quindi, sanzionabili in maniera opportuna. Non è stato considerato dirimente il fatto che mancasse l’intenzione di offendere e che tra colleghi si respirasse un clima gaudente. Nessuna scusante né giustificazione per il lavoratore, licenziato per giusta causa. I riferimenti sessuali devono, dunque, essere equiparati pienamente alle molestie e in base alla Direttiva europea 2002/73/CE considerati dalla giurisprudenza “discriminazioni fondate sul sesso”.
Senza alcun dubbio, si tratta di una sentenza che rappresenta uno spartiacque non solo per il diritto in generale, ma per i suoi effetti nell’organizzazione del lavoro. Non spetta a noi stabilire se la sentenza è giusta oppure no o se ci fossero alternative al licenziamento che, soprattutto, in questo periodo di “vacche magre”, in cui non è per niente facile cercare un nuovo lavoro, è ancora più traumatico. Questa sentenza, invece, può rappresentare un monito per alcuni atteggiamenti maschili sul luogo di lavoro. E’ ora di finirla di comportarsi al lavoro come se si stesse sul divano di casa, in cui ci si svacca a piacimento e si sbrocca con un linguaggio licenzioso. L’ambiente di lavoro, per quanto possa esserci armonia tra i colleghi, è un luogo informale e, come tale, merita, rispetto ed educazione.