Il testimone scomodo del Donbass

Una macchina fotografica contro la guerra, il coraggio di raccontare i civili dimenticati e una verità che nessun tribunale ha saputo difendere.

La collina Karachun domina Sloviansk come un avamposto naturale. Nel maggio 2014, in pieno conflitto tra esercito ucraino e milizie filorusse, quella postazione è controllata dalla Guardia Nazionale ucraina. La mattina del 24 maggio, da lì parte una serie di colpi di mortaio verso una zona industriale ai piedi della collina. In quel punto, tre uomini in abiti civili stanno fotografando la guerra, da un posto in prima fila su quello spettacolo tremendo. Sono Andrea Rocchelli, fotoreporter italiano di trent’anni, l’attivista russo Andrej Mironov e il fotografo francese William Roguelon. I colpi li raggiungono mentre cercano di ripararsi: Rocchelli e Mironov muoiono, Roguelon sopravvive e racconterà ogni dettaglio di quell’attacco.

Andrej Mironov e Andrea Rocchelli

Andrea Rocchelli, conosciuto come Andy, non era un giornalista improvvisato. Laureato al Politecnico di Milano, aveva scelto la fotografia come strumento per raccontare le contraddizioni del mondo contemporaneo: le rivolte in Nordafrica, le violenze in Asia centrale, le condizioni dei braccianti sfruttati dalla criminalità nel Sud Italia. Collaborava con testate europee e statunitensi e faceva parte del collettivo Cesura, realtà indipendente che vedeva nella fotografia un mezzo di denuncia sociale. In Ucraina non stava cercando un’immagine di guerra, ma le storie dei civili intrappolati nel conflitto, un tema che spesso non trova spazio nelle narrazioni ufficiali.

Per tre anni la morte di Rocchelli rimane sospesa in un limbo fatto di indagini difficili e scarsa collaborazione da parte delle autorità ucraine. Nel 2017 la Procura italiana arresta Vitaly Markiv, cittadino italo-ucraino ed ex combattente della Guardia Nazionale. Markiv si trovava proprio sulla collina di Karachun il giorno dell’attacco. Il processo che si apre a Pavia l’anno successivo attira l’attenzione internazionale. In aula ci sono i genitori di Rocchelli, Elisa Signori e Rino Rocchelli, ma anche associazioni che difendono la libertà di stampa, sindacati dei giornalisti e osservatori dell’OSCE. È un processo che non riguarda solo una vittima, ma il diritto dei reporter a lavorare senza essere presi di mira.

La pressione diplomatica è forte. Dall’Ucraina arrivano dichiarazioni in difesa di Markiv, definito “eroe nazionale”. Il ministro dell’Interno Arsen Avakov si presenta persino a Pavia, trasformando il processo in una questione politica. Eppure, il 12 luglio 2019 la Corte d’Assise condanna Markiv a 24 anni di carcere. La sentenza sostiene che non si possa parlare genericamente di fatalità o di danno collaterale: esistono responsabilità individuali anche sul campo di battaglia. È una decisione straordinaria, perché nel mondo oltre il novantacinque per cento degli omicidi di giornalisti resta impunito. Per una volta, la morte di un reporter diventa oggetto di dibattimento.

L’entusiasmo dura poco. Nel 2020, durante il processo di appello a Milano, la prospettiva si ribalta. La Corte decide di escludere alcune testimonianze raccolte senza le necessarie garanzie difensive, tra cui quelle di militari che si trovavano sulla collina insieme a Markiv. La ricostruzione dei fatti non viene smantellata: la dinamica dell’attacco resta confermata. Tuttavia, l’esclusione delle prove rende impossibile attribuire con certezza la responsabilità penale all’imputato. Markiv viene assolto con formula piena “per non aver commesso il fatto”. Nel dicembre 2021 la Cassazione conferma definitivamente l’assoluzione. È un paradosso giuridico: la verità dei fatti esiste, ma non può essere usata per punire nessuno, men che meno il responsabile.

Nel frattempo alcune inchieste giornalistiche indipendenti ricostruiscono la catena di comando sulla collina e individuano figure al vertice dell’esercito ucraino. Anche queste piste, però, non sfociano in procedimenti giudiziari. Quando tutte le vie legali italiane si esauriscono, i genitori di Andrea si rivolgono alla Corte Penale Internazionale dell’Aja, che sta indagando sui crimini di guerra in Ucraina. La loro frase sintetizza perfettamente ciò che è accaduto: “La verità ce l’abbiamo. Quello che manca è la giustizia.”

Corte Penale Internazionale

L’eredità di Andrea Rocchelli non è fatta soltanto di atti processuali. È custodita nelle sue fotografie, recuperate da una delle sue fotocamere nel 2016, che mostrano i minuti prima dell’attacco: i civili, i movimenti, la posizione. Quelle immagini non sono solo prove tecniche; sono la testimonianza del suo metodo, basato sulla vicinanza alle persone e sul rifiuto delle narrazioni di comodo. Il collettivo Cesura continua a portare avanti progetti di fotografia documentaria. Nel 2019 nasce l’associazione Volpi Scapigliate, creata da amici e collaboratori di Andrea per diffondere i valori che lo guidavano: indipendenza, coraggio e difesa della libertà di espressione. A lui sono stati dedicati un documentario e diverse iniziative culturali, tra cui un episodio del podcast di Mario Calabresi.

La storia di Andrea Rocchelli oggi appare più attuale che mai. In un mondo in cui i giornalisti sono sempre più spesso considerati bersagli, il suo lavoro ricorda che l’informazione libera non è un lusso ma una necessità democratica. Laddove i reporter vengono messi a tacere, le guerre proseguono senza testimoni e senza responsabilità. Andrea lo sapeva bene e per questo continuava a scattare, anche mentre intorno a lui cadevano colpi di mortaio. È morto facendo ciò che riteneva essenziale: guardare negli occhi la realtà e mostrarla al mondo.